Cercare di proporre in modo serio e il più possibile scientifico questo lavoro riguardante “l’interiorità”, con l’intento di rivalutare tale dimensione dell’umano in ambito educativo, è stata indiscutibilmente una sfida avvincente. Lavorare a stretto contatto con bambini e ragazzi mi ha aiutato a pormi tante domande sulle loro esigenze, le loro paure e i loro desideri, e spendere il mio tempo con loro e “per” loro ha sorprendentemente cambiato la mia vita. Dai momenti di gioco a quelli di falò sotto le stelle, dalle delusioni di “non avercela fatta” alla gioia di un “ti voglio bene” inaspettato.
Questo, tanti dialoghi con loro, e molto altro, ha fatto sì che gli interrogativi che mi ponevo, e mi pongo tutt’ora sui ragazzi, tante volte hanno trovato, proprio attraverso di loro, risposte a domande, “vuoti” e dubbi che riguardavano me e la mia interiorità.
Molto spesso dopo pomeriggi di allenamenti o giornate/settimane di “campi scuola” ho potuto sperimentare in prima persona la spossatezza del corpo e la stanchezza della mente accompagnate, però, da una sensazione bellissima di “cuore” pieno di gratitudine e gioia per la ricchezza dei momenti vissuti con i ragazzi.
Queste sono le motivazione di carattere esperienziale che mi hanno spinto a proporre questo lavoro di tesi con l’idea di fondo che questa “dinamicità di rapporti” costruttivi, che “mette in moto” l’interiorità di chi li vive, non solo si allontana da un’idea di vita interiore vissuta come solipsismo, ma vuole allo stesso tempo, con attenzione e fermezza, non essere ridotta a semplice esperienza emotiva o psicologica.
L’approccio a questa tematica non può che aver seguito quel metodo transdisciplinare che caratterizza questo Istituto Universitario, dove ogni materia risulta in dialogo con le altre nel cercare quella “Sophia” (sapienza) che non può mai essere frutto di facili assolutizzazioni o verità precostituite. Parlare di educazione ed interiorità o meglio proporre delle linee per una “educazione dell’interiorità che avvenga attraverso un particolare tipo di relazione tra le persone” non è stato semplice.
Mi auguro che eventuali limiti riscontrabili in questo lavoro, siano il punto di partenza per approfondimenti futuri che spero di poter proporre, con la speranza che soprattutto in ambito educativo e pedagogico, la dimensione dell’interiorità sia presa in considerazione in modo serio e prezioso per una formazione dei ragazzi che sia sempre più umanizzante e rispondente alle esigenze con cui essi c’interpellano.
Proprio partendo dalle domande che il mondo giovanile, nell’oggi di una società secolarizzata quale è quella “occidentale”, pone al mondo degli adulti, intende svilupparsi il primo capitolo della tesi.
Il suo filo conduttore è la crisi dell’interiorità che caratterizza in modo sempre più marcato la realtà giovanile, in un’età dove crescono lo smarrimento e le difficoltà di relazione con se stessi e con gli altri. Un importante spunto sul tema mi è stato, possiamo dire suggerito, da Papa Francesco, pochi mesi fa, quando ha espresso timore per un mondo dal “cuore anestetizzato” nel quale sembra prendere sempre più spazio una inarrestabile “globalizzazione dell’indifferenza”.
Proprio partendo da queste considerazioni, con un particolare occhio di riguardo per i giovani e gli adolescenti, viene trattato il tema del nichilismo definito da Umberto Galimberti, filosofo Italiano, come un “ospite” che si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri e fiacca la loro anima.
L’analisi della situazione attuale continua poi constatando come, i repentini cambiamenti della società avvenuti negli ultimi anni, ci invitano a porre attenzione sulla razionalità tecnico/funzionale che caratterizza il “sistema tecnica” condizionando in modo più o meno inconsapevole le nostre vite.
Industrializzazione prima e tecnologizzazione poi, hanno apportato stravolgimenti socio/culturali che coinvolgono da vicino i giovani di oggi, i quali devono far fronte ad input e sollecitazioni esterne, pensiamo alla straordinaria evoluzione dei mezzi di comunicazione, inconcepibile fino a pochi decenni fa.
Una modernità che appare sempre più “liquida” e luoghi di vita quali la famiglia e la scuola che sembrano rischiare di perdere l’autorità educativa che hanno sempre avuto in passato, sono solo alcune delle cause di un disagio giovanile che ha sempre più bisogno di essere compreso e analizzato.
A conclusione del capitolo sembra dunque necessario proporre una riscoperta dell’interiorità che sia per il ragazzo un imparare a discernere ciò che lo realizza come uomo da ciò che lo priva della sua libertà; un percepire nel profondo del cuore la grandezza e la bellezza di essere una persona unica al mondo e per questo capace di qualcosa di cui nessun altro è capace; un sapersi ascoltare non avendo paura del silenzio; un sapersi riconoscere come diverso dagli altri proprio attraverso l’esperienza di relazioni interpersonali che siano vere ed autentiche.
Cuore e mente, psiche ed anima; chiunque tenti di definire la natura e l’essenza dell’uomo sempre si è trovato a non poter prescindere da una di queste dimensioni dell’esistenza. La corporeità pur con la meraviglia fisiologica della sua complessità e la bellezza del suo adattamento al mondo certo definisce, in parte, chi è l’uomo, ma la famosa citazione del “Piccolo Principe” di S. Exupéry, che «l’essenziale è invisibile agli occhi», racchiude in sé una verità che risulta sempre attuale.
Nel secondo capitolo della tesi ho provato, guardandomi bene dal darne definizioni riduttive, a tracciare i limiti e definire le sfumature di questa realtà invisibile che è “l’interiorità dell’uomo”; passaggio necessario per poter proporre in seguito, con maggior chiarezza, un approccio pedagogico su questo argomento.
In una prima parte del capitolo viene proposto un approfondimento sul concetto di anima partendo dall’evoluzione che tale tema ha avuto nella storia del pensiero occidentale. Vengono da subito prese le distanze da una visione riduttivista dell’uomo; interessante a riguardo uno scritto del filosofo e psicoanalista statunitense James Hillman che sottolinea come:
pur avendo rinunciato alla ricerca dell’anima in questo o quell’organo o apparato del corpo, la scienza della psicologia continua a cercare di ingabbiare l’invisibile con metodi visibili. E quando i ricercatori non sono riusciti a trovare l’anima nei posti dove la cercavano, la psicologia scientistica lasciò perdere l’idea stessa di anima
Dimensione dell’ interiorità, invece, brillantemente approfondita da Agostino di Ippona, figura sulla quale mi sono soffermato nella parte centrale del capitolo.
Prima di giungere a quella maturazione filosofica e spirituale che lo ha portato all’incontro con un Dio che è amore e relazione, Agostino è stato, infatti, un uomo profondamente e visceralmente attratto dalle bellezze sensibili del mondo. Ho ripercorso alcuni tratti delle sue Confessioni, (cap VII e IX) partendo da un approccio fenomenologico/esperienziale e approfondendo alcuni momenti cruciali della sua vita nei quali matura in lui un nuovo modo di guardare alla realtà e di rapportarsi al mondo. Attraverso il confronto con un’altra grande opera del pensatore, il De Trinitate, ho potuto giustificare teoreticamente, infine, quel passaggio dalla scoperta di una interiorità intrasoggettiva ad una intersoggettiva, che ha caratterizzato la sua vita ed il suo pensiero.
Nella seconda parte del capitolo, continuando la riflessione su un modello di vita interiore che rispecchi la natura relazionale dell’uomo, ho proposto le linee di un’ interiorità che accade, viene definita e portata a compimento proprio nella relazione con l’altro da sè.
Giuseppe Maria Zanghì, sulla scia disegnata dall’esperienza spirituale di Chiara Lubich, propone il paradigma di una vita interiore “dilatata” sino a comprendere, in una dinamica di amore reciproco, l’altro da sé, il fratello, per potersi realizzare nell’unità con lui.
Sarà proprio dalle dinamiche scaturenti da un approccio alla tematica dell’amore quale «suprema e vitale forma di relazione umana» che si è sviluppata l’ultima parte del capitolo. Tralasciando l’analisi sulle relazioni interpersonali di tipo coercitivo e contrattuale, si è potuto constatare da studi scientifici come l’amore disinteressato, (oggetto di studio che desta sospetto in molti sociologi e psicologi moderni) è perlomeno tanto “contagioso” quanto l’odio e «la percentuale delle reazioni amichevoli all’aproccio amichevole è perfino leggermente maggiore rispetto a quella delle reazioni ostili all’approccio ostile».(citazione di Pitirim Sorokin sociologo statunitense).
La tipologia e la qualità delle relazioni che intratteniamo con le persone che ci circondano nella quotidianità della vita, quindi, dipendono in buona parte dal nostro approccio nei loro confronti. Bello poter constatare che, il più delle volte, siamo noi stessi, con la nostra volontà, che possiamo condizionare in positivo o in negativo tali relazioni.
Non potevo, a conclusione del capitolo non specificare le qualità che sono necessarie a queste relazioni d’amore per essere autentiche e rispondere a quella sete di pienezza che connota ognuno di noi. Scrive Enzo Bianchi:
«Là dove c’è un amore autentico, che crea comunione tra gli uomini, non c’è soltanto un incontro umano ma un incontro con l’amore di Dio che è presente e si realizza negli uomini. Quando l’amore diventa realtà tra gli uomini, allora Dio è presente, agisce, si esprime; e gli uomini, anche se non lo sanno, proprio nell’esperienza dell’amore partecipano all’amore di Cristo».
A nessuno è chiesto di fare una scelta, quella della fede, che nasce da un incontro personale e non può mai essere programmata, come non si può imporre un’amicizia autentica. Rimane, però la verità espressa da queste parole di Agostino che trascendono, nell’amore, il limite segnato dal riconoscere o meno, in tale amore, il volto di Dio;
Potresti dirmi che non hai visto Dio, ma non potrai dirmi che non hai mai visto gli uomini. Ama dunque il fratello: se amerai il fratello che vedi, ecco che vedrai Dio, poiché vedrai l’amore stesso, e Dio abita nell’amore.
Nel terzo ed ultimo capitolo della tesi ho proposto, infine, in ambito pedagogico, delle linee guida che possano risultare utili nell’approccio con l’educando, tenendo in considerazione come “educare l’interiorità” non sia altro, in fondo, che educare nel rapporto con se stessi e nelle modalità di dialogo con gli altri.
Ho cercato di mettere in luce l'idea di un’educazione che sappia cogliere le dinamiche insite nella complessa sfida educativa e le sappia “giocare” nel presente di un dialogo autentico tra educando ed educatore. Gli autori di riferimento sono stati Paulo Freire e Martin Buber entrambi pensatori che insistono sull’essere umano come “incontro” e che valorizzano il dialogo come dimensione costitutiva dell’“essenza stessa della persona”.
Dopo aver proposto alcune dinamiche che sottendono il compito educativo in Buber e le qualità dell’educatore dialogico proposte da Freire offro degli spunti su linee pedagogiche che riguardano un’ educazione dell’interiorità.
Nessuno può pensare di rispondere a questa importante, impegnativa e perché no, misteriosa, esigenza che riguarda ciascuno, senza un coinvolgimento personale che vada a toccare e mettere in gioco esigentemente la propria persona. Di qui la sfida, che non può che essere una chiamata, che un educatore sente di farsi carico nel rispondere a questa “domanda profonda” di attenzione, considerazione, fiducia, amicizia, da parte del ragazzo che gli sta davanti. (Daniele Bruzzone, pedagogista italiano)
«Puntare in alto, affrontare con loro le questioni di fondo dell’esistenza, metterli di fronte agli interrogativi cruciali, appellarsi alla loro parte migliore e sfidarne gli appetiti più nobili, anziché appiattirsi sui loro interessi più banali e immediati per timore di “perderli”; perchè l’assenza di sfida rende la proposta educativa scontata, demotivante e pressochè inutile».
La riuscita del compito pedagogico non può passare quindi solo dalla capacità di un educatore di trasmettere le necessarie competenze formali, ma per poter rispondere alle esigenze globali che caratterizzano l’educando, deve necessariamente avere il coraggio e la capacità di mettersi in gioco in prima persona. Niente come il fenomeno educativo permette la reciprocità di una relazione che partendo da un atteggiamento di apertura e dono gratuito dell’educatore, nella maggior parte dei casi, trova una risposta di rispetto, impegno e di partecipazione attiva da parte dell’educando nei confronti degli imput che gli vengono proposti.
Educarci ad educare l’interiorità dunque deve necessariamente partire da una “conversione” del modo di porci nei confronti del rapporto con gli educandi. Imparare a saperli guardare negli occhi, vedendo quello che forse neanche loro stessi vedono quando si guardano allo specchio, è il dovere di ogni educatore che si pone l’ambizioso traguardo di «guidare il giovane entro la propria esistenza.
«Un educatore cresce nella propria umanità e riempie la vita del suo senso più personalmente proprio, quando nient’altro vuole, con le sue capacità, che aiutare il giovane a vivere in prima persona la sua vita. (scrive Guardini)
Quando le logiche del “cuore”, inteso come capacità di amare e di lasciarsi toccare dall’amore, superano le logiche superficiali dell’egoismo e dell’utilitarismo, non è difficile scoprire come i più giovani siano visibilmente toccati, affascinati ed attratti da queste dinamiche. Si fa sentire così quell’ esigenza di superare i propri condizionamenti, che a quell’età abbiamo visto essere tanti, che spinge ad andare verso quel “qualcosa di oltre” che porta i ragazzi a valorizzare la bellezza, saper apprezzare la bontà e cercare la verità.
Tendere a questi tre obbiettivi sembra possa essere la strada da percorrere per una educazione che non intende nascondersi dalle profonde esigenze che ogni essere umano, avvolto dal mistero della sua unicità, possiede.
Essere un educatore che non ha paura di mettere in gioco la propria interiorità per aiutare gli educandi a scoprire la loro, è una sfida che non si può che giocare nel kairos di un dialogo che riconosce nell’altro, nella sua istanza più profonda, un fratello da amare.
Richiede, senza ombra di dubbio, equilibrio, esperienza, metodo, e quella sorta di “destrutturazione strutturata” delle lezioni, che le rende momenti di apprendimento unici e irripetibili;
richiede di non aver paura a proporre tematiche riguardanti la vita e la morte, l’amore e la sofferenza, dimostrando la capacità di lasciarsi costantemente interrogare e meravigliare davanti al mistero della persona umana;
richiede, infine, “la passione” per un lavoro che è “più di un lavoro” e quel sentimento di “compassione” che, caratterizzando la relazione educando/educatore, dischiude quello spazio, luogo d’amore reciproco, che trascende i due soggetti toccando le intime corde dell’interiorità e aprendo così alle infinite e misteriose altezze del cielo.
Istituto Universitario Sophia – Loppiano – Incisa Val d’Arno (FI)
Marco CARDINALI (2013)