Il testo della Lectio Magistrale in occasione del Conferimento della Laurea Honoris Causa in pedagogia a Washington è riferimento primo per quanti vogliono avvicinarsi al pensiero pedagogico di Chiara Lubich.

Washington, 10 novembre 2000

 

Eminenza card. Hickey,
Presidente O'Connell,
Arcivescovo Montalvo,
Eccellentissimi Vescovi e Personalità religiose,
Membri del Consiglio d'amministrazione,
Illustri Professori e membri della Comunità Accademica,
Signore e Signori, cari amici.

 

Un grazie di cuore a questa illustre Università per aver pensato di attribuire questo dottorato in Pedagogia alla mia persona ed in essa, al Movimento dei Focolari, che - penso - voglia significare un riconoscimento al contributo, che possiamo aver dato, alla formazione della persona umana e a quella della società nel campo dell'educazione.

Se, da una parte, questa laurea honoris causa mi meraviglia, dall'altra vorrei dire che non mi sorprende del tutto.

E ciò perché ogni tensione del nostro agire è religiosa e s’incentra sempre e anche, quindi, nello sforzo educativo, su Cristo che ha collegato il concetto di educatore addirittura a se stesso: "E non fatevi chiamare 'maestri', perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo" (Mt 23,10). 

Prima di passare a trattare dell'aspetto dell'educazione nel nostro Movimento, che è chiamato anche “Opera di Maria”, penso sia necessario, almeno per chi non lo conosce, presentare almeno la spiritualità che lo anima e genera un nuovo stile di vita.

L'Opera di Maria è un Movimento ecclesiale. Le sue dimensioni (in 182 nazioni con milioni di membri) la dicono Opera di Dio. Così, infatti, la pensano Giovanni Paolo II e la Chiesa.

Lo scopo di questo Movimento è concorrere a realizzare il testamento di Gesù: ”Che tutti siano uno” (Gv 17,21), fine che si raggiunge appunto attraverso questa che è una spiritualità personale e comunitaria insieme.
Le sue linee di svolgimento poggiano su dei cardini: parole o realtà evangeliche che si comprendono bene conoscendo come lo Spirito Santo le ha impresse nel nostro animo già nei primi mesi della nostra nuova vita.

Siamo in Italia negli anni ’40. Infuria la seconda guerra mondiale.
Mentre compio un atto di carità, avverto che Dio mi chiama a donarmi per sempre a Lui.  Lo farò il 7 dicembre 1943. Sarà considerato la data dell'inizio del Movimento.
Per vari motivi avvicino giovani della mia età che vogliono seguire la mia strada.
 
Il 13 maggio 1944 Trento, la mia città, subisce un terribile bombardamento, uno dei molti.
Con le mie nuove compagne un giorno cerco rifugio in una cantina buia, con la candela accesa e il Vangelo in mano. Lo apro. V'è la preghiera di Gesù prima di morire: "Padre... Che tutti siano una cosa sola" (Gv 17,21). Quelle parole ci mettono in cuore la convinzione che per tale pagina del Vangelo eravamo nate.

I bombardamenti continuano e con essi scompaiono quelle cose o persone che formavano un po' l'ideale dei nostri giovani cuori. Crollano le possibilità di farsi una famiglia perché il fidanzato non torna dal fronte, di proseguire gli studi, di poter avere una casa e così via.
La lezione che Dio ci offre con le circostanze è chiara: "Tutto è vanità delle vanità" (Qoelet 1,2). Tutto passa.
E io avverto in cuore una domanda: "Ci sarà uno scopo, un ideale per cui spendere la vita, che nessuna bomba può far crollare?
E subito la risposta: "Sì, c'è: è Dio".
Decido con le mie compagne di far di Dio il perché della nostra esistenza.
 
Ma chi era Dio?
All'apparire del suo nome nel cielo della nostra anima, come per una folgorazione, abbiamo capito o meglio ri-capito che Dio è Amore. E da quel momento ci siamo sentite avvolte dal suo amore.
Anche prima sapevamo che Dio esisteva, ma era pensato da noi piuttosto lontano, al di là delle stelle, inaccessibile.
 
Ora tutto era cambiato. Come se gli occhi si fossero aperti per vedere che Dio, perché Amore, era vicino a noi, ci seguiva in ogni nostro passo, si nascondeva sotto tutte le circostanze della vita liete o tristi, sapeva tutto di noi.
E "Dio Amore" è divenuto il primo cardine della nostra spiritualità.

Ma, se Dio è Amore – pensavamo -, quale il nostro atteggiamento nei suoi confronti?
La vita di Gesù è stata per noi di luce: Egli ha amato il Padre facendo la sua volontà. Così noi.
La volontà di Dio è il secondo cardine della nostra spiritualità.

Le bombe cadevano giorno e notte costringendoci a raggiungere, anche undici volte al giorno, il rifugio e non potevamo portare con noi null'altro che un piccolo libro: il Vangelo.
In esso - eravamo certe - avremmo trovato le richieste di Gesù, la sua volontà.
L'aprivamo e quelle parole s'illuminavano tutte. Le capivamo come per la prima volta ed una forza, che pensiamo dello Spirito, ci spingeva a metterle in pratica.
Si leggeva: "Ama il prossimo tuo come te stesso" (Mt 19,19). Il prossimo. Dove era il prossimo?
Era in tutte quelle persone colpite dalla guerra che avevano fame, sete, erano ferite, senza vestito, senza casa. E ci dedicavamo subito a loro.
Il Vangelo assicurava: "Chiedete e vi sarà dato" (Mt 7,7; Lc 11,9).
Si chiedeva per i poveri e si era ogni volta riempiti di ogni ben di Dio che si portava a chi ne aveva bisogno.
"Date e vi sarà dato" (Lc 6,38), abbiamo letto ancora. Davamo. Vi era un giorno qualche mela in casa? La davamo al povero che chiedeva. Ed ecco in mattinata arrivarne un sacchetto. Davamo pure quelle e in serata ne arrivava una valigia.
Gesù aveva promesso ed ora manteneva. Il Vangelo, dunque, era vero.
Questa costatazione metteva le ali al nostro cammino appena intrapreso. Si comunicava agli altri ciò che accadeva ed essi, incontrandoci, avvertivano di imbattersi in Gesù vivo.
La Parola di Dio è il terzo punto della nostra spiritualità.

Tutte le Parole di Gesù ci hanno colpito. Ben presto però lo Spirito Santo ci andò sottolineando in particolare quelle che riguardano proprio l'amore, l’amore evangelico.
E l'amore è stato un ulteriore cardine della nostra spiritualità: il quarto.

Essendo esposte sempre alla morte, "vi sarà - ci siamo domandate un giorno - una sua volontà a cui Egli tiene particolarmente? Vorremmo vivere proprio quella prima di morire."
Nel Vangelo c’era un comando che Gesù aveva detto “mio” e “nuovo”. Quello che ci voleva: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,12-13).
Volevamo viverlo e lo abbiamo espresso in un patto. Ci siamo dette vicendevolmente: "Io sono pronta a morire per te. Io per te. Tutte per ciascuna."
E da quel momento la nostra vita è cambiata.
Cos'era successo? Con quell'atto avevamo messo in moto la carità. E l'amore ci aveva unito come Gesù aveva desiderato quando aveva detto: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome (nel mio amore) io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20). Egli si era dunque posto in mezzo a noi. E quanto di nuovo, di bello, avvertivamo nel nostro cuore, era effetto della sua presenza.
Amore reciproco e Gesù in mezzo a noi: quinto e sesto punto della nostra spiritualità.
 
Non sempre naturalmente riuscivamo a vivere così. Alle volte difetti anche piccoli offuscavano lo splendore di quella unità.
Il Vangelo però ci poteva insegnare ad affrontare anche questi momenti.

In una circostanza eravamo venute a sapere che Gesù aveva sofferto il massimo dei suoi dolori quando in croce, sperimentando persino l'abbandono del Padre, aveva gridato: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46).
Siamo state toccate da questo fatto e ci siamo decise di seguire nella nostra vita Gesù proprio così.
Da allora, abbiamo scoperto, dappertutto, il suo volto e Lo abbiamo amato: nei dolori personali, nelle persone sole, abbandonate, sofferenti, nelle divisioni del mondo.
Gesù crocifisso e abbandonato è il settimo aspetto della nostra spiritualità.

Ma Gesù non aveva, forse, detto: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35)? E "che siano uno… affinché il mondo creda" (Gv 17,21)?
Ecco che chi ci stava attorno ravvivava la sua fede e ri-credeva o credeva per la prima volta in Gesù.
Con l'amore reciproco, poi, che generava Gesù fra noi, eravamo pronte ad attuare l'unità invocata da Gesù: "Che siano uno come io e te" (cf Gv 17,21).
L'unità è l'ottavo punto della nostra spiritualità.
 
Questa un po' la nostra Opera. Ho cercato di mostrarla – come ho detto - dal punto di vista spirituale.
Ma il nostro Movimento può essere visto anche sotto l'aspetto teologico, filosofico, culturale, sociale, economico ed educativo, così come ecumenico o interreligioso.

Cercherò ora di esporre alcune delle conseguenze pedagogiche dei più significativi punti di questa spiritualità.

Infatti, il nostro Movimento e la nostra storia possono essere visti come un grande, straordinario evento educativo. Vi sono presenti tutti i fattori dell'educazione ed è pure evidente la presenza di una teoria dell'educazione, di una ben delineata pedagogia che fonda il nostro agire educativo.

Ma - chiediamoci subito - che cos'è l'educazione?
Essa può definirsi come l'itinerario che il soggetto educando (individuo o comunità) compie, con l'aiuto dell'educatore (degli educatori), verso un dover essere, un fine che si ritiene valido per l'uomo e per l'umanità.

E quali sono gli elementi caratteristici della nostra pedagogia legati, come ho detto, ai cardini principali della spiritualità che viviamo?
Se teniamo presente il primo punto: la rivelazione – passi la parola - di Dio come Amore, possiamo costatare come nella nostra storia, fin dai suoi inizi, è stato presente un unico educatore, l'Educatore per eccellenza, appunto Lui: Dio Amore, Dio Padre. E’ Lui che ha preso l'iniziativa nei nostri riguardi, che ci ha accompagnati, ci ha rinnovati, rigenerati - con l'intenzionalità che guida il vero educatore - lungo un ricchissimo itinerario di formazione personale e comunitaria.
E' Lui che ha fatto recuperare a noi ed a molti il senso della più Grande Paternità: una scoperta di portata enorme se pensiamo che una certa cultura tenta di affermare - sul piano teorico e su quello pratico - che "Dio è morto". Eclissi del Padre che ha favorito anche un'eclissi di padre, una perdita di autorevolezza sul piano dei rapporti umani ed educativi, un relativismo morale, un'assenza di regole nella vita individuale, nelle relazioni interpersonali e sociali (spesso con conseguenze gravi come forme di violenza, ecc.; ... quasi a dar ragione a Dostojevskij quando afferma "uccidere Dio è il più orrendo suicidio" ... e "Se Dio non c'è , allora tutto è permesso").
Noi abbiamo avuto la grazia di conoscere Dio. Egli, che è Amore, non è certamente un giudice lontano, un nemico geloso che annienti con la sua potenza l'uomo o che non se ne curi. Al contrario, è un educatore che riconosce l’uomo nella sua identità unica e irripetibile, che esalta l’uomo. Egli ama l'uomo e per questo è anche esigente: da vero educatore chiede ed educa alla responsabilità, all'impegno. Dio è Amore, e per questo ci ha liberati dalla schiavitù più grande, riaprendoci le porte di Casa sua, e sappiamo qual è il prezzo che suo Figlio ha pagato per questo riscatto. Nessun educatore ha mai considerato tanto l'uomo, quanto un Dio che è morto per lui. Dio Amore ha innalzato l'uomo, ogni uomo, alla dignità altissima di figlio ed erede. Ogni uomo!
Ed era proprio sulla costatazione che tutti siamo figli dello stesso Padre che si fondava l'idea-forte di Comenius , grande rappresentante della pedagogia moderna: bisogna "insegnare tutto a tutti".


Ed ora un altro cardine della nostra spiritualità: la Parola di Dio.
"Insegnare tutto a tutti", si è detto, ma per questo è necessario usare - lo diceva Comenius stesso - la regola pedagogica della gradualità. Quella gradualità, a pensarci bene, che proprio il Padre sembra averci suggerito quando, fin dai primissimi giorni, ci ha spinti a vivere la sua Parola scegliendo del Vangelo una frase alla volta, da mettere in pratica per un mese, nella vita di ogni giorno.
Ma questo ci ha dato subito "Tutto", perché in ogni Parola è presente tutto Gesù (e nella Parola vissuta è Lui che vive in noi); nello stesso tempo, come bambini nutriti dalla sua Parola, ci siamo sempre più rivestiti di essa, crescendo così come adulti nella fede e nella vita.
E con questa semplicissima tecnica pedagogica della gradualità e della pienezza, la luce del nostro Ideale si è diffusa e continua a diffondersi ben al di là di noi, come esperienza spirituale ed educativa forte e in continua espansione. 
L'unicità della Parola di Dio poi è che essa è Parola di Vita, che si fa esperienza, in un mondo, anche pedagogico, spesso macchiato di verbalismo.
E abbiamo sperimentato la forza educativa, alternativa e contestativa, di questa Parola sempre viva e sempre nuova. A poco a poco, impressa nella nostra vita, essa le ha conferito - compito immane, proprio dell'educazione - un'unità esistenziale, favorendo il superamento della frammentazione-frantumazione che l'uomo prova spesso nella sua relazione con se stesso, con l'altro, con la società, con Dio, facendo emergere, nel contempo, l'unicità, l'originalità, l'irripetibilità di ciascuno.
 
Ed è per questa unità esistenziale tra Parola e Vita, tra dire e fare, che la nostra esperienza è per molti credibile e convincente, provoca profondi cambiamenti nell'esistenza personale, mette perciò in atto in tante persone un vero processo educativo.

La volontà di Dio altro punto.
La fedeltà alla Parola di Dio ci ha anche abituati a "perdere la nostra cattiva volontà", quella che ancora ci lega alle anguste modalità esistenziali dell'Io autocentrato, e a seguire la volontà di Dio, che ci porta al continuo autotrascendimento, ad un oltrepassamento verso il Tu che ci arricchisce e ci fa liberi.
Di norma nell'educazione morale della persona, dalla necessaria fase iniziale di dipendenza (moralità eteronoma) si passa gradualmente alla moralità autonoma (che dovrebbe contraddistinguere il soggetto adulto e maturo); anche nella nostra esperienza avvertiamo il passaggio educativo dall'iniziale adesione ad una volontà altra, alla sua Legge (che si manifesta in tanti modi) - alla quale ci aggrappiamo come un bambino che si affida totalmente alla guida dell'adulto -, alla forte percezione di libertà per l'interiorizzazione della Legge stessa, quando sentiamo che essa è diventata la nostra legge, quando essa è così impressa in noi da farci sentire adulti proprio perché in grado di dire: "Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me" (Gal 2,20).


E ancora: Gesù che grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34).
Gesù abbandonato è il nostro segreto, la nostra idea-chiave, anche per l'educazione.  Ci indica il limite senza limiti della nostra azione pedagogica; fino a quale punto e con quale intensità essa debba muoversi. 
Chi è Gesù abbandonato, per il quale abbiamo deciso di avere un "amore di preferenza"? Egli è figura dell'ignorante (la sua è l'ignoranza più tragica, la domanda più drammatica), del disagiato, del disadattato, dell'handicappato, del non-amato, del trascurato, dell'emarginato, di tutte quelle realtà-esperienze umane e sociali per le quali c'è - più che in ogni altra - un urgente e speciale bisogno di educazione. Gesù abbandonato è il paradigma di chi, carente di tutto, ha bisogno di qualcuno che gli dia tutto e per lui faccia tutto.  Perciò è anche l'idea-limite, il parametro dell'educando, che postula la responsabilità dell'educatore.  Egli ci indica perciò il limite senza limiti di tale bisogno e, nel contempo, il limite senza limiti della nostra responsabilità nell'aiuto e nell'educazione.

Gesù abbandonato però, che ha superato il suo infinito dolore aggiungendo: “Nelle tue mani, Padre, raccomando il mio spirito” (Lc 23,46), ci insegna pure a vedere la difficoltà, l'ostacolo, la prova, l'impegno, l'errore, il fallimento, il dolore, come qualcosa da affrontare, da amare, da superare. Generalmente noi uomini, in qualsiasi campo di attività, tentiamo con ogni mezzo di evitare tali esperienze. Anche in campo educativo - in tanti modi - con forme di iperprotettività, si tende a preservare i minori da qualsiasi difficoltà, abituandoli a vedere la vita come una strada in discesa, facile, comoda.  In realtà, li si lascia in forte disagio di fronte alle inevitabili prove della vita e, in particolare, li si rende passivi e renitenti rispetto alle responsabilità che ogni essere umano deve assumersi di fronte a se stesso, al prossimo, alla società.
Per noi, invece, proprio per la scelta di Gesù abbandonato, ogni difficoltà va amata e affrontata. L'educazione al difficile, come impegno che coinvolge sia l'educando che l'educatore, è perciò un altro punto cardine della nostra pedagogia.

Ci sono poi altri due punti che voglio prendere in considerazione: l'unità  e  Gesù in mezzo a noi.
Qui potremmo chiederci: qual è la finalità di questo processo educativo?
La nostra è la stessa finalità di Gesù che potremmo definire: la sua finalità educativa: "Che tutti siano uno": l'unità, quindi, profonda e sentita con Dio e fra gli uomini.

L'unità è un'aspirazione attualissima. Nonostante le innumerevoli tensioni del mondo contemporaneo, il nostro pianeta, quasi paradossalmente, tende all'unità: l'unità è un segno e un bisogno dei tempi.
Tuttavia questa intima spinta - come nell'e-ducere (tirare fuori) dell'educazione - va fatta emergere positivamente: è perciò implicata, su tutti i piani dell'agire umano, un'azione educativa coerente con le esigenze dell'unità, per fare del nostro mondo non una Babele senz'anima ma un'esperienza di Emmaus, di Dio con noi capace di abbracciare l'umanità intera. Sembra un progetto utopico, ma ogni pedagogia autentica è portatrice di una tensione utopica, da intendere come idea regolativa a costituire tra noi quel paese che ancora non c'è, ma dovrebbe esserci; l'educazione, in tale prospettiva, è vista come mezzo per avvicinarsi al fine utopico.
Nella nostra pedagogia, per la quale il piano spirituale e quello umano si compenetrano e si unificano (per l'incarnazione), l'Utopia non è né sogno, né illusione, né mèta inavvicinabile: essa è tra noi, e ne avvertiamo i frutti, quando attualizziamo il "Dove sono due o tre uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (cf Mt 18,20): questo fa sì che la finalità, la mèta più alta, sia realtà.
Qui sperimentiamo la pienezza della vita di Dio che Gesù ci ha donato, una relazione trinitaria, la Socialità più autentica, dove si attua una sintesi meravigliosa tra l'istanza pedagogica dell'educazione dell'individuo e l'istanza pedagogica della costruzione della comunità.  Crediamo che nella nostra esperienza di spiritualità comunitaria trinitaria si realizzino pienamente le idee sostenute da quanti, grandi nella storia della pedagogia, pur partendo spesso da premesse diverse, hanno insistito sull'importanza dell'educazione nella costruzione della società fondata su rapporti autenticamente democratici. Pensiamo, solo per fare un nome, al grande contributo a tutto il mondo pedagogico offerto a partire dagli Stati Uniti, da John Dewey. Troviamo molte consonanze anche con la recente "pedagogia di comunità" in cui viene proclamata la necessità di coniugare la promozione dell'individuo e la promozione della comunità.
Naturalmente la nostra esperienza di vita comunitaria si fonda sull'invito di Gesù: "Amatevi come io vi ho amati... Siate una sola cosa": motivazione questa che è di natura religiosa, ma sono straordinari gli effetti sul piano educativo. La finalità da sempre assegnata all'educazione (formare l'uomo, la sua autonomia) si esplica, quasi paradossalmente, nel formare l'uomo-relazione, che per noi è l'uomo icona della Trinità, capace di autotrascendimento continuo nella realtà di Gesù in mezzo a noi. E' attraverso questa prassi spirituale ed educativa dell'amore reciproco, del consumarci in uno - prassi che viene seguita da tutti i membri del Movimento, chiamati tutti a vivere l'esperienza comunitaria in piccoli gruppi - che noi operiamo per quella finalità delle finalità, espressa dalla preghiera-testamento di Gesù: "Che tutti siano uno": l'Utopia-Realtà per la quale, come strumenti guidati da Lui, intendiamo spendere la nostra vita.

Ed è attraverso una seria educazione che possiamo diventare, come individui e come comunità, capaci di collaborazione, di dialogo, di incontro con altre persone, con altri Movimenti, ecc.  E' attraverso una seria educazione, infine, che - con la grazia di Dio - possiamo puntare alla santità personale e comunitaria.

Maria è l'esempio del vivere in modo eccelso i punti pedagogici ai quali ho fatto riferimento.
Naturalmente Gesù, che ha saputo compiere questo itinerario pedagogico, questo andirivieni tra l'abbandono e la Trinità, e che, nella sua esperienza terrena, ha vissuto con intensità eccelsa la relazione interpersonale con gli altri, praticando l'empatia, l'accettazione, la speranza, la lotta educativa, la vita di unità col Padre e "con i suoi": Lui è il testimone più autentico e più esigente di cosa significhi essere educatori.

Cari amici,
spero che questi accenni siano stati sufficienti a spiegare l'esperienza pedagogica che emerge dal nostro Movimento e possano farvi intuire quanto sia contenta e mi senta onorata al ricevere questa laurea in pedagogia.
Grazie del loro ascolto. Che Gesù Maestro formi in tutti noi dei veri e validi educatori.
Chiara Lubich

 Pubblicato in: “Nuova Umanità” 3-4 (2001), p. 341-352

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