Cadine (Trento), 9-10 ottobre 2010
(Commissione Internazionale EdU)
1. DIGNITÀ della persona
Nelle riflessioni preparate per i precedenti “Incontri pedagogici” e per il Congresso Internazionale “E per scuola… una città”[1] si è più volte ritornati sulla primarietà ontologica della relazione: l’essere umano non esiste solo in quanto individuo, ma come essere in relazione. Relazione, perciò, come dimensione costitutiva l’educazione stessa: una continua pratica comunicativa, scuola di reciprocità tra educatore ed educando, tra educatori, tra giovani, tra gruppi.
Come educatori, dunque, dovremmo esser consapevoli di quanto sia importante coltivare una chiara visione del mondo e della vita, una nostra antropologia, non solo riferita alla capacità dell’educatore di mettersi in relazione, ma al suo stesso essere-relazione, la cui più alta vocazione si esprime nella capacità di amare. In questo senso anche il socratico “conosci te stesso”, se riferito all’educatore, può esser strettamente connesso con la realtà dell’amore, in quanto la conoscenza è vera se apertura all’altro da sé, orizzonte che mentre accoglie le diversità promuove nello stesso tempo la relazione[2]. Si tratta di un complesso itinerario formativo, non certo facile e lineare, lungo tutto l’arco della vita, ma che fonda le sue radici nei preziosi anni dello sviluppo infantile, adolescenziale e giovanile.
In tale prospettiva la persona si può definire come un microcosmo dinamico in continuo scambio relazionale[3], che “si“ progetta e “si” trasforma[4], per cui un educatore sarà tanto più efficacemente educatore quanto più in grado di credere instancabilmente nella possibilità dell’educando di divenire a sua volta persona-relazione, capace di amore.
Se la persona, quindi, si realizza come essere-in-relazione, non basterà instaurare una comunicazione univoca finalizzata all’apprendimento di conoscenze e di competenze cognitive, ma occorrerà promuovere anche solide competenze relazionali, di cui la reciprocità rappresenta il traguardo più maturo[5]. Si tratta di quel lungo processo per il pieno sviluppo dell’identità, dell’autonomia personale e sociale, che richiede di esser sostenuto, accompagnato, valorizzato dallo “sguardo” appassionato, sempre vigile e fiducioso degli educatori. L’educazione, quindi, come “promozione” piena, di tutta l’umanità dell’educando, della sua persona integrale che, come sottolinea Jacques Maritain, è un tutto e non una parte[6].
Continuando questa riflessione e riallacciandoci a quanto sottolineato anche in precedenti riflessioni - cioè che il DNA di ogni persona è l’amore - occorre porsi davanti al mistero che ogni persona porta in sé, che è mistero della nostra stessa natura. Ciò richiede, come auspicava Emmanuel Mounier, di non ridurre la persona al semplice individuo, centrato su se stesso, ma al contrario di aiutarlo a decentrarsi per realizzare il tirocinio del tu. Infatti senza l’incontro con l’altro, senza amore, le persone non arrivano ad essere tali perché se si è staccati dagli altri si è estranei anche a se stessi. Amore, quindi, come sottolinea ancora Mounier, che se da una parte è via costitutiva dell’unità della comunità, dall’altra è elemento irrinunciabile per l’unità stessa della persona[7].
Una visione antropologica che il pensiero religioso riporta al concetto di persona umana come essere creaturale, fatta ad immagine di Dio[8], che può realizzarsi solo come essere-relazione d’amore[9]. Perché “questa nuova creatura è veramente un essere grande. Essa merita tutto il nostro rispetto”[10].
Da questo punto di vista, Chiara Lubich, nel suo intervento sull’arte d’amare, pur ripercorrendo tratti cari al personalismo, ci presenta però una novità antropologica: ogni persona deve essere vista nella sua più alta dignità e amata come Gesù. Non solo: in ognuno possiamo vedere Gesù da amare, ma lo dobbiamo fare cercando di essere noi stessi un altro Gesù che ama se stesso negli altri. Tale visione altissima della persona umana, pressoché accantonata anche dal pensiero teologico fino al Concilio Vaticano II[11] e non ancora attualizzata nelle dovute conseguenze, apre stimolanti piste di riflessione anche alla teoria pedagogica che dovremo approfondire.
Possiamo affermare, allora che persona è chi riesce a leggere in profondità la propria esperienza[12] e raggiungere coscienza di sé e dei propri atti, attivando un processo dinamico di consapevolezza ed intenzionalità[13]. È colui che sa superare i limiti della sola individualità, una terra dove ogni relazione è morta, cioè dove l’io è tutto. La vera affermazione di sé, invece, paradossalmente avviene nel dono, nell’amare, come valore per sé e per gli altri: mi dono, amo, quindi sono[14].
2. UN’EDUCAZIONE PER TUTTI
L’amore assume nelle relazioni tra le persone, diverse colorazioni: amore paterno, materno, figliale, fraterno… che dipendono da precisi ruoli e circostanze.
Ma quali tonalità deve avere l’amore nella relazione educativa?
Con la precisazione che il vero amore ama tutti, se ne dilatano i confini a livello planetario, proponendo un amore che possa abbracciare una fraternità universale. Non più un amore che risponde alle esigenze di particolari relazioni, rivolto a particolari persone, ma un amore indirizzato ad ogni persona, indipendentemente dalla relazione che ha con noi.
Dal punto di vista educativo si evidenzia che solo un amore così permette di impegnarsi ad educare tutti, indipendentemente dalla loro condizione personale, sociale e culturale e perfino dalla risposta che essi daranno, garantendo con la forza dell’amare quel diritto all’educazione universalmente riconosciuto[15]. È un amore che non può porsi dei limiti e che richiede forza e fermezza interiore: “amare il fratello con tutte le proprie forze senza temere le crisi che egli potrà eventualmente introdurre nelle nostre relazioni”[16].
Un amore dagli ampi orizzonti, come è scaturito dalle originali e coraggiose intuizioni di grandi educatori e dei loro metodi: per esempio, il “metodo preventivo di don Bosco”, originato dall’amore per i bambini e i ragazzi più disagiati di Torino; la “pedagogia di Maria Montessori” nata dalla passione per l’educazione dei bambini, in particolare di quelli disabili; la “pedagogia della motivazione” e dei centri di interesse di Ovide Decroly, che si è occupato anch’egli inizialmente di bambini disabili; oppure gli studi di Reuven Feurstein sulla “modificabilità cognitiva”, che hanno avuto origine dal suo lavoro come educatore di bambini sopravvissuti all’Olocausto; similmente, la “scuola di don Milani”, sorta dall’attenzione ai poveri, da cui ha preso avvio una pedagogia ancora oggi attualissima, basata sulla partecipazione e sul coinvolgimento attivo; e, ancora, la “pedagogia di Paulo Freire” sulla reciprocità docente-studente che si è sviluppata in Brasile a partire dal suo impegno con i più poveri, gli analfabeti,.
Un amore che deve essere libero dalla necessità di risposta e dai limiti che spesso ci poniamo, Infatti, “la carità è una legge senza confini, universale”- sottolinea Luigi Giussani - per cui “in quella legge, porre un limite non è limitarla, ma abrogarla (…) Dobbiamo vivere per l’universo, per l’umanità intera”[17]. Un atteggiamento questo che richiede il pieno rispetto dell’altro: l’educando è diverso da me, è diverso dal progetto che posso avere su di lui, non deve rispondere alla mia visione del mondo e della vita ma deve realizzarsi in maniera autonoma. Per cui, come sottolinea Buber, è “vero educatore” chi sa rispettare pienamente le diversità di ciascuno e sa valorizzarle[18].
Tale atteggiamento ci ricorda anche che ciascuno è unico: “Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico”[19].
3. COSTRUTTORI DI UMANITÀ
L’amore umano è di per sé limitato perché nessuna persona è in grado di sintetizzare le infinite sue qualità (e l’accettazione del limite è scelta responsabile di ogni autentico educatore). Per questo la possibilità di un autentico amore educativo può essere ricercata solo nel continuo sforzo di superare se stessi, di annullarsi per lasciar agire il maestro interiore e permettere a lui di istaurare autentiche relazioni con “se stesso nell’altro”. Ciò richiede una continua opera di autotrascendimento che ci pone in dialogo con un ideale più grande di noi: chi manifesta una fede lo realizzerà nella relazione con Dio; altri lo faranno nel dialogo sereno e profondo con la propria coscienza e con quei valori che essa mette in risalto e che troviamo in ogni autentico educatore.
È solo in un tipo di relazione così che è possibile la trasmissione dei valori, il cui passaggio dipende dall’atmosfera che si sprigiona nel rapporto educativo, attraverso cui si possono offrire le risposte alle domande espresse o inespresse degli educandi: “Si tratta di percepirle, di chiarirle, di educarle, nella trama del rapporto educativo concreto. La sete interiore degli uomini, intessuta d’inquietudini, d’insicurezze, di volontà di crescita, non deve essere calmata ed appagata in modo superficiale”. Infatti, qualsiasi inevitabile situazione problematica o di crisi che l’educando attraversa, “in ultima istanza tende a sfociare nel mistero stesso dell’essere uomo davanti all’assoluto, in una vita fragile, tormentata, che pur anela a cercare sempre più lontano”[20].
Ritorna qui, con forza, l’essere dell’educatore che non può confinarsi nelle pur irrinunciabili competenze di tipo scientifico e didattico, ma deve possedere un’arte. Non volendo certo sminuire l’importanza di metodi e strumenti, l’arte educativa dell’amare ci riporta quindi alla priorità della persona dell’educatore, in grado di incarnare tale arte in tutte le sue sfumature, e della persona dell’educando, chiamato egli stesso a far sua tale arte.
Un amore educativo così permetterà agli educatori di condividere il proprio patrimonio culturale in maniera adatta a ciascuno “superando facilmente considerazioni di antipatia o simpatia che spesso ostacolano la conoscenza reciproca e la retta individuazione degli aspetti positivi e negativi di ogni situazione educativa”[21].
L’amore in educazione non rimanda mai esclusivamente a se stesso, ma sa guardare oltre. Solo così potrà equilibrare vicinanza e distanza dal giovane, intimità e distacco, accompagnamento e promozione dell’autonomia. Il cammino di maturazione diventa così, ad un tempo, cammino guidato e autoeducazione. L’educatore, infatti, come l’educando, deve essere nella continua disposizione di ricerca e di autoconoscenza; deve esporsi al rischio di ascoltare[22] evitando preconcetti e imposizioni, affrontando la responsabilità di un dialogo aperto. Ritroviamo qui il concetto di gratuità come “pienezza dell’essere”, espresso da Maurice Blondel[23] che sottolinea come il vero educatore deve essere in grado di agire senza nessuna contropartita immediata, senza essere automaticamente influenzato da simpatie o antipatie, dalla risposta degli educandi o da altro.
Sarà quindi l’amore al bene, al vero, che costituirà la ragion d’essere stessa dell’educatore e motiverà la sua azione rivolta all’educando, chiunque egli sia: recettivo o meno, conforme alle nostre aspettative o no. Possiamo ben affermare, allora, che l’educazione trova la sua originaria ragion d’essere da una profonda passione per la vita, che è ricerca competente e coraggiosa del bene delle giovani generazioni ad essa affidate. In questo senso l’educazione è un autentico atto d’amore per tutta l’umanità.
[1] Per i testi vedere: www.eduforunity.org
[2] “Non ci può essere una vera promozione umana se non si arriva all’apertura verso gli altri soggetti (…) L’amore rappresenta l’espressione più completa della volontà di promozione dell’altro. L’amore comprende tutti gli altri valori ed è l’anima dei vari punti di vista (…) Chi ama veramente vuole lo sviluppo autonomo del ‘tu’…”, in (F. Pittau, Il volere umano nel pensiero di Vladimir Jankélévitch, Università Gregoriana Editrice, Roma1972, pp. 206 – 217); cfr. anche M. Nedenocelle, Verso una filosofia dell’amore e della persona, Paoline, Milano 1959.
[3] Cfr. T. Sorgi, Costruire il sociale, la persona e I suoi “piccoli mondi”, Città Nuova Editrice, Roma 1991.
[4] Cfr. M. Freeman, R. Robinson, The development within. An alternative approach to the study of lives, in “New Ideas Psychol.”, 8, 1990, pp.53-72.
[5] L’autonomia alla quale qui si fa riferimento non deve confondersi con l’autosufficienza o l’indifferenza, ma è da intendersi come assunzione di responsabilità verso sé e verso l’altro.
[6] J. Maritain , L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1983, p.2.
[7] E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, p. 105 in: E. Mounier, Persona e umanesimo relazionale, LAS, Roma 2005, pp 90-91.
[8] J. Maritain, op. cit., p.21.
[9] Gregorio di Nissa afferma: “Il nostro Creatore ci ha dato l’amore come espressione della nostra fisionomia [identità] umana” (Gregorio di Nissa, De hominis opificio 5, PG 44, 137 C.). E Evdokimov, filosofo e teologo russo, commenta questa frase con l’espressione di un poeta che cambia il “Cogito, ergo sum” di Cartesio con “Amo, ergo sum” (Cfr. P. Evdokimov, L’Ortodoxie, Desclée, Paris 1979, p. 68.). Anche nel pensiero dei Padri della Chiesa si trova l’espressione: se vuoi realizzarti, ama. Agostino scrive: “Domanda a un uomo che cosa desidera, Ti risponderà che cerca la felicità. Ma gli uomini non conoscono né la strada né dove trovarla, e brancolano. Cristo ci ha rimessi sulla buona strada, quella che porta alla Patria. Come camminare? Se ami, corri. Più forte ami e più velocemente corri” (Agostino, cit.in A.G.Hamman Les racines de la foi, 1983, p. 104).
[10] G. Nosengo, I figli sono un dono, S.Paolo, Milano 1958, pp.40-42.
[11] Evidenziano i testi conciliari che non solo l’uomo è in relazione con Dio, creato “per mezzo di Cristo e in vista di Cristo” (Col 1,16), ma addirittura che “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Per questo “Il cristiano poi, reso conforme all'immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli riceve «le primizie dello Spirito» (Rm8,23) per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell'amore”. Gesù con la sua morte “ha distrutto la morte, con la sua risurrezione ci ha fatto dono della vita, perché anche noi, diventando figli col Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre!”. (Gaudium et Spes, n.22).
[12] L. Guasti, Curricolo e riforma della scuola, La Scuola, Brescia, 1998.
[13] M. De Beni, I tesori di Giby e Doppiaw, Educarsi alla relazione, Città Nuova Editrice, Roma 2006.
[14] G. Cicchese, Persona, in “Nuova Umanità”, XXVIII (2006/2), n. 164.
[15] Come riconosciuto nei Diritti universalmente riconosciuti e come si evince da diverse Dichiarazioni e pronunciamenti dell’ONU.
[16] L. Secco, La pedagogia dell’amore, Città Nuova, Roma 2006, p.136.
[17] L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 102-103.
[18] Cfr. G. Milan, Educare all’incontro – la pedagogia di Martin Buber, Città Nuova, Roma 1994, pp. 94-97.
[19] M. Buber, Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico, Qiqajon, Magnano (VC), 1990, p.27.
[20] P. Roveda, Amore pedagogico, in: Nuovo dizionario di Pedagogia, Edizioni Paoline, Roma 1982, p.49.
[21] A. Morisi, Amore, in: Enciclopedia Pedagogica, La Scuola, Brescia 1989, vol I, pp. 547-548.
[22] “La competenza non è sufficiente perché i consigli siano buoni. Attualmente si sa che consigliare non è, prima di tutto, dare indicazioni, ma saper ascoltare” (P. Chauchard, Forza e saggezza del desiderio. Indagine sull’Eros, Città Nuova, Roma 1973).
[23] Cfr. M. Blondel, L’azione, Vallecchi, Firenze 1921.