Cadine (Trento), 9-10 ottobre 2010
(Giovanni BAchelet - Università “La Sapienza”, Roma
Deputato della Repubblica Italiana)
Domanda:
Innanzitutto un grazie speciale per aver concesso questa intervista. Volevamo iniziare con una domanda che riguarda quegli anni di piombo, del terrorismo; soprattutto le chiediamo una spiegazione di quegli anni per i giovani e gli educatori di tutta Europa che ci stanno ascoltando. E’ stato un periodo di grandi lacerazioni e di lutti, come nella sua famiglia, ma che ha visto anche segni bellissimi e straordinari di speranza.
Risposta:
Erano anni molto difficili e coincidono con i miei 20anni. Ogni settimana, si può dire, si leggeva sulle prime pagine dei giornali di attentati a persone, di attacchi terroristici con morti e feriti,di bombe nei luoghi pubblici: treni, stazioni. C’era un clima quasi da vigilia di guerra civile. Proprio in quegli anni però l’Italia non adottando leggi speciali, ma mantenendo la propria Costituzione democratica e il proprio sistema di rappresentanza e mettendo in campo - nelle Istituzioni, nel Paese- energie nuove che forse prima non avevano partecipato alla politica è riuscita a vincere questa sfida. Una sfida che non si configurava come guerra civile nel senso classico, perché - per la maggioranza dei casi - le vittime non erano “combattenti” dei due schieramenti, ma per lo più, normali cittadini o rappresentanti delle istituzioni: magistrati, politici, sindacalisti, giornalisti, che facevano semplicemente il loro dovere ed erano disarmati.
PREGHIERA DI BACHELET AL FUNERALE DEL PADRE (inserto nel video dell’intervista):
“Per quanti, oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel parlamento, nelle strade, continuano in prima fila la battaglia della democrazia, con coraggio e amore. Vogliamo pregare oggi anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché - senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare - sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri.”
D.:
Nel giorno del funerale del papà tutti furono colpiti dalle parole di perdono, questo colpì tantissimo una nazione intera…
R:.
In realtà in quegli anni i molti funerali delle vittime del terrorismo erano occasione di disperazione o di proteste - contro uno stato debole - o addirittura di richiesta di leggi speciali - a volte addirittura della pena di morte - .
Non fummo però gli unici a fare questo tipo di ragionamento, a pronunciare una simile preghiera, ad esprimere un simile pensiero cristiano.
Io ricordo, per esempio, la moglie di Walter Tobagi che morì quello stesso anno; ma parecchie altre famiglie delle vittime, quasi immediatamente, segnalarono che per quel che era in loro – come dice S.Paolo - non erano in guerra, non odiavano nessuno.
Credo che complessivamente sia stato questo - non tanto la nostra preghiera in particolare –che ha contribuito a smontare una “teoria terroristica di uno stato imperialista, quasi simile allo stato totalitario fascista che opprimeva il popolo”. Ciò dimostrò che alcuni di quelli che venivano chiamati con disprezzo “Servi dello Stato” erano persone che credevano non soltanto nella Costituzione democratica e nelle regole, nei diritti - anche di chi viene arrestato o detenuto - ma che lo facevano anche con una ispirazione cristiana che era alla base della loro vita e anche del loro impegno civile.
D.:
Abbiamo notato che quando Lei parla e scrive del papà usa il termine “Papà” con la P maiuscola. Ma com’era suo papà come padre, come educatore?
R.:
Aveva la capacità di ascoltare più che di parlare; anche perché – e questa è anche un’altra delle ragioni dell’uso della P maiuscola - per lui parlava l’esempio della sua vita, che io vedevo tutti i giorni: nel suo lavoro, nel suo entusiasmo, nell’amore, per noi figli e per tanti altri che giravano per casa nostra. La nostra casa era piuttosto movimentata e c’era un’intesa tra mio padre e mia madre, senza la quale nulla o quasi di quello che lui faceva, era chiaramente e palesemente possibile.
Forse è questa la difficoltà degli educatori poiché quello che più rimane è quello che si vede più di quello che si ascolta.
Una delle lezioni di mio padre è che il primo dovere di un cristiano è anche quello di ogni cittadino: cioè far bene il proprio lavoro, contribuire con la propria attività quotidiana al bene comune. Per lui il suo mestiere era anche la sua vocazione: la ricerca e l’insegnamento. Questo lo portava anche a contatto con molti ragazzi, alcuni dei quali sono poi diventati a loro volta degli studiosi della stessa materia.
D.:
Negli anni di piombo, come lei ha detto prima, la violenza si respirava quotidianamente. Oggi i tempi sono mutati, certamente molte cose sono cambiate in meglio, tuttavia si notano segni di violenza, di sopraffazione, di segregazione anche nelle nostre scuole e nelle nostre piccole comunità. A volte questi segni sono molto forti e appariscenti. Cosa dovrebbe dire, cosa potrebbe dire ai giovani di fronte ai fenomeni di violenza delle nostre società?
R.:
Forse mio padre direbbe che alcuni valori e alcuni principi della Costituzione - che anche negli anni di piombo erano messi in discussione - richiedono ad ogni generazione uno sforzo educativo per diventare vita vissuta. Forse in ogni epoca c’è qualche tentazione diversa alla violenza e forse in ogni epoca c’è bisogno di una generazione di genitori ed educatori capaci di trasmettere la bellezza e la gioia della vita comune, del rispetto degli altri, della capacità di scoprire in ciascuno - specialmente nei più deboli e nei diversi - qualcosa che noi dobbiamo imparare.
D.:
Suo padre ripeteva spesso “è importante gettare il seme buono, ricordare il bene”…
R.:
Da insegnanti non si può amare fino in fondo i propri studenti se non si punta all’eccellenza nella propria capacità educativa e in tutto quello che riguarda la propria preparazione disciplinare, pedagogica.
Una delle cose che ho appreso da mio padre è che queste sono due facce della stessa medaglia; chi le mette in contrapposizione è perché o non è capace o non ama abbastanza o difende la sua incapacità sotto il presunto “volemose bene” o difende la propria incapacità di amare dietro la maschera della disciplina e della inflessibile necessità della pura efficienza.
D.:
Suo padre venne ucciso proprio nelle aule dell’università. Suo papà amava moltissimo i giovani, amava moltissimo la sua professione. Com’era suo papà come educatore, come insegnante?
R.:
Chiunque fa nel modo migliore il proprio lavoro realizza quella perfezione che è destinata a migliorare complessivamente il mondo. Una certa flessibilità che sia in grado di tirare fuori da ciascuno il meglio piuttosto che fare una politica degli standard dalla quale alcuni sono fatalmente esclusi.
D.:
C’è una frase che l’attuale Papa Benedetto ha scritto in un suo libro nel periodo post-Conciliare. Un libro che suo papà conosceva e amava e di cui sottolineava sempre questa frase, a matita : “ Solo chi da se stesso crea futuro; chi vuole semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile”.
R.:
Questa è una frase che io ho scoperto dopo molti anni che Papà l’aveva sottolineata su quel libretto e mi è sembrata significativa della sua vita, perché credo che per mio Papà fosse centrale il fatto di essere disposti a cambiare sé stessi come vera molla del cambiamento del mondo: cioè la conversione non la dobbiamo chiedere agli altri, ma prima di tutto a noi stessi. E questo è anche l’insegnamento più difficile perché costa e richiede la maggior Grazia del Signore: quella di essere ogni giorno - anche quando si hanno 50 o 60 anni - disposti a riconoscere quel che va cambiato e provare a cambiarlo.