Cadine (Trento), 9-10 ottobre 2010

(Giuseppe Milan - Università Padova)

Le nostre società sono in continuo cambiamento. E, senza ombra di dubbio – sono multiculturali, con le risorse e le difficoltà che questo comporta. Persone di ogni età, gruppi con le più varie composizioni, provenienti da diverse culture, storie, traiettorie esistenziali, sono chiamati a incontrarsi, a convivere, a costruire un mondo comune nuovo, capace di rompere schemi di pensiero e di comportamento rigidi, monotoni, spesso fondati sulla presunzione di superiorità e di perfezione.

       L'irruzione dell' "altro", dello "straniero", è sempre una "sfida": può risvegliare in ciascuno, e nelle collettività, paure, pregiudizi, atteggiamenti difensivi e di chiusura, che a volte si trasformano in offensivi.

Noi crediamo che sia necessario operare nella prospettiva dell’intercultura, che postula invece l'incontro, la reciprocità, la convivialità delle differenze. Proprio l’amore ne è la chiave.

La realtà umana, di fatto, ci presenta spesso il "disincontro" (come affermava Martin Buber), sia a livello microscopico (relazioni ravvicinate) sia a livello macroscopico: forme di “apartheid” (intolleranza, recintazioni culturali…), di “assimilazione” (omologazione, conformismo, riduzione al “pensiero unico”), di “banalizzazione delle differenze”…vengono spesso attuate nei nostri contesti – nei rapporti con le varie identità culturali -. A volte sono forme imposte – in modo esplicito o subdolo – dalla cultura dominante. In altri casi sono prevalentemente assunte dai “nuovi arrivati”, che possono recintarsi in ambiti ermetici di resistenza culturale oppure auto-assimilarsi superficialmente troncando le radici culturali di cui sono figli.

È necessario – sul piano pedagogico – indagare sulla complessità di queste situazioni, riconoscerne le possibili cause e, naturalmente, evidenziare criticamente le tipologie di integrazione che negano l’incontro autentico.

Noi riteniamo che, in un’ottica costruttiva, sia necessario mettere in gioco proprio le dimensioni dell’amore, l’autentico collante capace di dar vita a relazioni costruttive e reciproche, di rendere fecondi gli incontri tra le diversità. Vanno perciò valorizzate le esperienze – tutt’altro che facili, spesso problematiche ma davvero preziose – di apertura all’altro, di dialogo autentico e rispettoso, attraverso le quali è possibile attuare la realtà – mai scontata né definitiva - dell’intercultura, la convivialità dinamica delle differenze.

L’esperienza di Anna Granata, che ora sentiremo, si muove proprio in questa direzione.

 

 DALLA PARTE DELL’ALTRO

 

(Anna Granata - Università Milano)

 

 


 

Mi presento. Ho da poco terminato un Dottorato in pedagogia interculturale e collaboro col Centro di ricerca per le relazioni interculturali dell’università Cattolica di Milano.

Nel mio percorso di formazione e ricerca in campo interculturale hanno avuto un ruolo fondamentale alcune amicizie con persone di origini e culture diverse.

In questi casi l’amicizia, spazio privilegiato di dialogo, assume un valore del tutto particolare. La curiosità di conoscere i pensieri dell’altro fa di questo scambio un vero e proprio laboratorio di intercultura.

Ho conosciuto Myriam, giovane avvocato libanese, qualche anno fa in occasione di un convegno a Roma. Abbiamo scoperto fin dal primo istante di avere in comune tante passioni: dalla politica, all’impegno civile, allo studio e alla ricerca. Condividiamo anche uno stile comunicativo simile, appassionato, a volte ironico e a volte indignato, specialmente quando si tratta di questioni che ci stanno a cuore.

Dal giorno in cui ci siamo conosciute è iniziato tra noi uno scambio molto intenso di mail, telefonate, racconti, nella ricerca costante di comprendere i nostri diversi contesti e stili di vita. Ho fatto miei, non di rado, pensieri e sentimenti che non mi appartengono, come la paura e l’angoscia per lo scoppio di una nuova guerra, il lacerante senso di ingiustizia per una situazione che non sembra mai risolversi, ma anche più semplicemente un forte senso di attaccamento alla propria patria. Attraverso questo scambio abbiamo visto gradualmente allargarsi i nostri orizzonti.

 In viaggio.

Finché non si visita la casa di una persona è difficile dire di poterla conoscere fino in fondo. Questa profonda convinzione mi ha portato, man mano che passava il tempo, a desiderare fortemente di andare a trovare Myriam nella sua terra, ed è così che ho deciso di partire per il Libano.

Il ricordo della guerra è molto vivo e passando per le vie di Beirut si immagina cosa possa voler dire vivere con l’angoscia delle bombe, rintanandosi nei rifugi, sentendo le sirene suonare e la gente scappare. Più volte al giorno va via la corrente perché l’apparato elettrico non è ancora stato sostituito dopo l’ultima recente guerra, ma ci si rende conto della situazione anche soltanto entrando al supermercato e passando attraverso il metal detector per il rischio costante di attentati.

Nella camera in cui Myriam mi ha ospitato c’è una foto scattata in un quartiere di Beirut che la ritrae insieme a un gruppo di amici di fronte alle case sventrate dalle bombe, anche se si ricostruiscono le case non è facile cancellare le tracce di tanta sofferenza e distruzione.

Nel giro di dieci giorni è entrato in me un diverso senso del pericolo, che misura costantemente le possibilità di movimento da una zona all’altra del paese, ma anche un diverso ritmo di vita, lento e rilassato, tipicamente mediorientale, così come suoni ed espressioni di una lingua diversa dalla mia che hanno dato forma concreta e colore ai racconti di Myriam.

 Shock interculturale.

Un giorno camminavamo vicino al confine con la Siria e Myriam mi ha raccontato più a fondo la sua esperienza con la guerra: a dodici anni ha assistito ad una delle stragi più cruente della storia del Libano, un segno rimasto indelebile nella sua memoria. E poi ci sono i ricordi più recenti della guerra del 2006, che le ha lasciato nuove paure, nuovi incubi notturni, insieme ad una profonda sensazione di incertezza per il proprio futuro.

Ha cercato anche di spiegarmi cosa significa convivere con un nemico, dentro di sé, un’esperienza che posso dire di non aver mai vissuto. Abbiamo parlato del suo rapporto con Israele (il principale avversario del Libano), con il quale vivono perennemente in guerra, tra attacchi e soprusi di inaudita gravità e violenza. Io le ho raccontato qual è il mio di rapporto con Israele, lo stato ebraico, terra dove si sono rifugiati tanti sopravvissuti della Shoah, con i loro figli e discendenti.

D’improvviso mentre parlavo ho avuto l’impressione che si fosse creata tra noi una enorme distanza: io, europea, con la mia storia di profondo rispetto misto a sensi di colpa, nei confronti di Israele; lei, libanese, con tutto il suo vissuto di sofferenza, soprusi, violazioni e dominazioni da parte di uno stato che a suo parere non avrebbe il diritto di collocarsi in quel pezzo di terra.

Siamo rimaste senza parole di fronte a due visioni che ci pareva non potessero trovare alcuna conciliazione. Mi è parso di vivere per la prima volta sulla mia pelle quello che Carmel Camilleri e Margalit Cohen-Emerique (2003), tra i più grandi esperti di intercultura, hanno definito “choc de cultures”, che segna l’improvvisa difficoltà di comunicazione tra due o più persone a seguito di un conflitto di visioni, generando un vero e proprio shock nelle persone che lo vivono.

In quel momento abbiamo deciso di guardarci negli occhi e di fare un patto: continuare a comunicarci le nostre visioni e fare di questa divergenza profonda un’occasione di crescita per entrambe.

Due finestre.

Tornata a casa, a seguito di questa esperienza, ho avuto più volte la tentazione di mettere da parte la mia storia e le mie idee per abbracciare quelle di Myriam. In fondo, mi dicevo, chi più di lei può dirmi quale visione avere sulla terra nella quale vive e per la quale soffre? In più, mi sembrava che la sua sofferenza, che avevo in qualche modo toccato con mano, fosse troppo grande per non essere accolta senza filtri, minando le mie convinzioni. Forse la strada più facile.

Eppure, tutti i più grandi maestri dell’arte del dialogo ci hanno insegnato che per dialogare occorre avere una propria personale idea, a cui essere fedeli: il muro che mettiamo tra noi e l’altro non può generare dialogo, così come non può generarlo la fusione totale. Da qui è iniziata la nuova fase della nostra amicizia.

Pochi mesi fa Myriam è venuta a Milano e abbiamo organizzato un incontro dal titolo: “due finestre sul Medio Oriente”. La sfida era provare a coinvolgere altre persone nel laboratorio di dialogo. Abbiamo esordito raccontando l’episodio dello shock culturale e da lì abbiamo dato inizio al confronto, seduti in cerchio con una trentina di persone: Myriam ci ha aperto, con grande onestà e coraggio, la sua finestra sul Medio Oriente, fatta di esperienze, vissuti dolorosi, domande profonde e analisi personali, e noi abbiamo provato ad aprire insieme la nostra finestra, di europei.

A tratti era palpabile quella esperienza di “eccedenza”, come la definisce Martin Buber, che – aprendoci e arricchendoci del “punto di vista dell’altro” – si configura come eccedenza di pensieri, di esperienze, di sensibilità, di sentimenti, che entrano a fare parte di noi attraverso l’altro: un’ esperienza che non cambia necessariamente i nostri pensieri, ma sicuramente cambia lo scopo del dialogo: non si dialoga per arrivare con una strada più facile a un compromesso comune, ma più delicatamente si annodano i fili che permettono di comprendere a fondo il proprio punto di vista e quello dell’altro.

Bellissima l’affermazione di Anna: “Finché non si visita la casa di una persona è difficile dire di poterla conoscere fino in fondo”. L’intercultura, in fondo, sta in questa capacità di ospitalità e, da ospiti, di raccontarci e di costruire insieme il “mondo comune” (P. Freire). Ospite è chi sa invitare e accogliere – essendo casa accogliente -. Ed è chi sa andare – decentrandosi – nella casa altrui, mettendosi nella sua postazione, vedendo il mondo e se stesso da quel diverso punto di vista.

Per noi si apre allora la stimolante questione di una didattica “ospitale”, trasversalmente interdisciplinare, capace di allestire e valorizzare, come vera “dimora accogliente”, il nostro territorio culturale e, nel contempo, di viaggiare e di conoscere – evidenziandone le bellezze – i territori culturali altrui. Avendo perciò in cuore la dimensione “mondo”, lo spazio comune che ormai riguarda tutti. L’educazione autentica, in questa prospettiva, non può che essere interculturale. Riguarda evidentemente tutti noi – non soltanto, come spesso si ritiene, lo “straniero”, chi proviene da un’altra cultura. Tutti siamo chiamati a formarci come “persone interculturali”, - non soltanto perché lo richiede la sfida dell’oggi – ma proprio perché riteniamo che l’essere umano sia “relazione”, dialogo”, “intercultura”.

Occorre per questo, come sostiene Edgar Morin, una “testa ben fatta”. Oserei aggiungere che occorre un “cuore ben fatto”. In sintesi, un’intelligente capacità di amore.

Il percorso di ricerca in “pedagogia interculturale” si snoda proprio nell’approfondimento di questi temi, nello scambio e nella conoscenza di significative esperienze interculturali, nella progettazione pedagogica e attuazione di strategie interculturali innovative, spesso alternative, in ogni contesto (in famiglia, a scuola, nella città…: dappertutto!)

Su questi temi – e sulle possibili ricerche da condividere – il dialogo tra tutti noi di EDU deve continuare.

 

Bibliografia

 BUBER M., 1994, Il principio dialogico e altri saggi, Ed. Paoline, Roma

DERRIDA J., 2000, Sull’ospitalità, Milano, Baldini & Castaldi.

FREIRE P., 2002, La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA.

MILAN G., 2007, Comprendere e costruire l’intercultura, Lecce, Pensa Multimedia.

MILAN G., 2002, La dimensione “tra”, fondamento pedagogico dell’interculturalità, Cleup, Padova.

MILAN G., 2001(4°ed.), Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber, Città Nuova, Roma.

MORIN E., 2000, La testa ben fatta, Cortina, Milano

SANTERINI M.,2001, Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della globalizzazione, Carocci, Roma

 

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Sono numerosi gli studenti che hanno scritto e discusso tesi di laurea dando un loro contributo al comune cammino di ricerca mondiale per una "pedagogia dell'unità".

Nella sezione "Studi e ricerche" stiamo pubblicando brevi sintesi di questi lavori e chiederemmo a tutte e tutti coloro che lo desiderano di inviarceli (con eventuale recapito mail per prendere contatti).