Bologna, 31 marzo - Benevento, 8 novembre 2007
(Commissione Internazionale EdU)
Molti acuti studiosi di scienze umane[1] hanno osservato che nel mondo, nonostante i segnali incoraggianti che si stanno registrando nella soluzione di problemi comuni (all’inquinamento, alla povertà…), di fatto si sta diffondendo una sorta di credo nel primato dell’individuo[2], di filosofia del “fai da te”, secondo cui si pensa che più si sarà indipendenti dagli altri tanto più si sarà felici. Questa in sintesi la caratteristica dominante della cultura contemporanea, soprattutto europea[3]: una trasformazione che comporterà cambiamenti anche nel modello e nella qualità della vita, specialmente delle giovani generazioni.
“Qualcuno mi ama?” è la continua, sempre nuova domanda che il giovane rivolge alla generazione adulta. Chiunque, genitore, insegnante, educatore, sappia cogliere questa invocazione viene a trovarsi di fronte, faccia a faccia, al bisogno educativo più profondo di ogni uomo: quello di essere amato. Ciò significa venire restituiti a se stessi, alla propria Origine, in quanto l’uomo, fin da bambino, per esistere, ha bisogno di esser accolto.
E’ proprio in questa crisi di transizione che dobbiamo cercare i motivi profondi di ripresa di un discorso che riporti l’attenzione sulla centralità della relazione umana, quale bisogno primario, fonte di benessere[4] per l’individuo e per la comunità.
Ma ciò richiede all’educatore oggi una presenza più attenta e riflessiva, oltre il semplice attivismo o il pur lodevole impegno operativo. Urge un di più, una più alta prospettiva, uno slancio procreativo, d’amore.
In questa direzione, dal punto di vista ontologico e antropologico, il concetto cristiano di Dio Amore può rivelare tutta la sua straordinaria forza e attualità, presentandosi come l’elemento fondante l’essenza stessa dell’uomo, del suo esser nel mondo: a immagine di un Dio che è Amore, creato a Sua somiglianza, un esser costitutivamente chiamato all’Amore.
La centralità dell’amore, quindi, punto nodale dell’esperienza umana da cui non si può fuggire, pena il non senso e la disperazione. “L’amore, inscritto nel DNA di ogni uomo e di ogni donna della terra, che risponde ai bisogni di tutti i tempi e di tutte le società umane”[5]. Un bisogno universale, quindi.
Da questa visione può aver origine anche tutto quel cammino, quel processo tipico dell’educazione verso il dover-essere della vita, visto come compimento dell’amore. Una prospettiva non solo pragmatica ma anche teleologica, verso i fini educativi. Nei nostri curricoli scolastici, perciò, siamo chiamati ad imprimere una nuova e più decisa accelerazione a tutte quelle tematiche che riguardano la scienza del Sé e dell’Altro, attraverso un’alfabetizzazione che sviluppi, oltre che le conoscenze, soprattutto le coscienze e la pratica della reciprocità.
“Che cosa capiterà a quel essere se io non mi prendo cura di lui?”[6] . Questo è l’incessante domanda che tiene desta la vocazione dell’educatore, consapevole che per poter educare occorre amare. Nessuno stipendio, nessun avanzamento di grado, nulla può competere con la felicità spirituale che gli deriva da questa ineffabile, continua riscoperta.
La Storia della Pedagogia, pur con accentuazioni diverse, ha confermato a più voci l’importanza dell’amore, anche denunciando la frequente prevalenza di pratiche ad esso contrastanti e, a volte, opposte.
Il Cristianesimo, in particolare, ponendo la “charitas” a fondamento della socialità umana, ha ispirato pensatori ed educatori capaci di elaborare una vera e propria “pedagogia dell’amore”. Tra questi: S. Agostino[7], che sottolinea la qualità dell’amore educativo come capacità di “donarsi con gioia”; S. Anselmo d’Aosta[8], che ne evidenzia i caratteri di dolcezza, di benignità, di comprensione; Vittorino Da Feltre[9], che rompendo le tradizionali regole sperimenta stili educativi fondati sull’amore e sulla continua convivenza con gli alunni; S. Giuseppe Colasanzio[10] che dell’amore fa il fondamento metodologico per eccellenza.
Arrivando ad alcuni dei massimi esponenti della pedagogia “moderna”, ricordiamo: Amos Comenio[11], per il quale l’ “insegnare tutto a tutti” è metodo pedagogico derivante dall’amore di Dio, che ci vede tutti figli-fratelli; Giovanni Battista de la Salle[12], il cui amore pedagogico si esplica come fratellanza, nella consapevolezza della presenza di Dio, Padre comune; Enrico Pestalozzi[13], che si è dedicato ai figli del popolo, elaborando un metodo fondato su un “amore pedagogico” simile all’ “amore materno”, capace di aprire alla comprensione reciproca e universale.
E’ assai noto, poi, il “sistema preventivo” di San Giovanni Bosco[14] fondato su “ragione, religione, amorevolezza”: amorevolezza che si pone come giustificazione e autentica fecondazione di tutto l’impianto pedagogico salesiano.
Venendo poi ad un pedagogista contemporaneo, il brasiliano Paulo Freire[15], e alla sua critica dell’educazione “depositaria”, che richiama alla struttura di potere autoritario ingiustamente rigida e verticale, troviamo in lui la proposta di un’educazione “problematizzante”, “liberatrice”, “dialogica”, di cui l’amore è presupposto imprescindibile: “Non esiste dialogo se non esiste un amore profondo per il mondo e per gli uomini. Non è possibile dare un nome al mondo, in un gesto di creazione e ricreazione, se non è l’amore a provocarlo. L’amore, che è fondamento del dialogo, è anch’esso dialogo. (…) Se non amo il mondo, se non amo la vita, se non amo gli uomini, non mi è possibile il dialogo”[16].
L’amore appare, quindi, come autentica chiave di volta, soluzione delle antinomie che si presentano nell’esperienza educativa (autorità/libertà; individuo/società; autonomia/eteronomia; attaccamento/separazione; fretta/pazienza;…). L’amore autentico - che indubbiamente non è una soluzione facile, bella e fatta, una “ricetta” - riesce a trovare la conciliazione, in una sintesi superiore sempre nuova e adeguata alla realtà.
In linea con tanti contributi presenti nella storia della pedagogia, anche la nostra prospettiva è: “L’educazione è amore”, e l’educatore è tale se è amore. Tutto va rivisto e visto, nell’educazione, a partire dall’ottica dell’amore.
La dimensione del sapere trova significato e si giustifica nell’equazione sapere=amare. In campo educativo, ne deriva che l’amore deve essere assunto come autentica motivazione, autentico scopo, autentico metodo del sapere. E, perciò, dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Ugualmente, il potere è amore: può solo se ama. L’asimmetria educatore-educando non diventa, in questo caso, lo strumento di un’ingiustizia, di un’oppressione: l’essere “up”, dall’altezza del potere acquisito nella relazione, non consente all’educatore di schiacciare e di comprimere chi è “down”, “in basso”,[17] ma gli offre ancora più forza per innalzarlo, per liberarlo, permettendogli di equilibrare le distanze, di diventare simile a sé, perfino di diventare più grande in vari campi. L’essere “up” dà all’educatore l’unico potere di dare potere.
Anche il volere , l’intenzionalità dell’educatore, deve essere governato soltanto dall’amore. L’educatore ama, vuole bene = vuole il bene dell’altro, e diffonde questa volontà per il bene comune e di tutti. Tutto l’ambiente educativo deve essere intriso di questo voler bene. E il soggetto educativo, allora, può ereditare questo “voler bene” che diventa un “volersi bene”, un “amore di sé” (non in termini egoistici, ma sempre nella prospettiva dell’Amore: volere il proprio essere-Amore).
E’ evidente che l’amore pedagogico autentico ama tutti e ciascuno: l’educazione, pertanto, non può avere predilezioni e attuare ingiustizie: questo, in altre parole, fonda l’educazione interculturale, l’educazione alla mondialità, l’educazione alla legalità. Ogni autentica espressione dell’educazione, in ultima analisi, trova vero fondamento nell’amore.
Da questo quadro fondativo dell’educazione possiamo trarre una considerazione importante: riconoscere che una simile disponibilità ad amare in modo autentico – senza cadere nelle varie forme di “patologia dell’amore”, richiede molta umiltà: c’è, in fondo, il rischio della presunzione, individuale e collettiva, di possedere “l’amore”.
L’umiltà richiede di saper riconoscere l’oggettività delle cose e di esser coscienti che per “essere padri” è necessario saper “essere figli”, e per “essere educatori” saper “essere educandi”.
Quanto appena detto ci aiuta a richiamare il ruolo che la figura del padre ha in ambito educativo, sia all’interno della vita della famiglia sia, più in generale, in senso metaforico (rispetto alla “paternità dell’educatore”).
Sappiamo che questa tematica è particolarmente importante oggi: la nostra società viene definita ormai da anni una società senza padri, ad indicare proprio la crisi della figura paterna, la crisi – in fondo – dell’autorità educativa.
Come abbiamo sentito nell’esperienza di Chiara Lubich, la vera autorità educativa si manifesta come tale se è autorevolezza autentica di un Padre: che anche a noi chiede di essere educatori-amore. Così si eviteranno i rischi dell’autoritarismo o del permissivismo, si eviterà sia il ‘mettersi in cattedra’ sia la tendenza – oggi diffusa – a ridurre le distanze, la propensione cioè a riconoscersi monogenerazione: genitore/amico/compagno.
La cultura contemporanea, anche quella pedagogica, che sembra aver decretato la “morte di Dio”, favorendo in tal modo una serie di “morti” anche negli gli esseri umani, ha probabilmente bisogno di recuperare l’Amore, come autentica sorgente di paternità, a tutti i livelli.
La paternità alla quale alludiamo ha evidentemente caratteristiche umane-pedagogiche precise: è una paternità intenzionale, intraprendente, responsabile, forte. E’ paterna e materna insieme: un amore accogliente, attivo e fattivo, che genera, accompagna, sostiene e orienta, che sa essere realmente “autorevole”, perché capace di evitare gli eccessi antipedagogici sia dell’autoritarismo sia del permissivismo.
E’ una paternità che non cammina a bassa quota, “terra-terra”, anzi, indica decisamente il mondo dei valori; essa, tuttavia, recupera in sé il primato dell’amore sull’etica: orienta indubbiamente alla legge, ma – essendo amore – va oltre il mero rispetto del “diritto” per dare spazio alla dimensione dell’amore, che sa “individualizzare”, “personalizzare”, mettere veramente la persona, nella sua unicità, al primo posto.
Riprendendo l’affermazione abissale “Dio è amore” possiamo osservare che essa trascina con sé un'altra conseguenza, rivoluzionaria non solo sul piano teologico, ma anche in prospettiva educativa e pedagogica. L’”amore” non è una tra le caratteristiche di Dio, un suo per così dire “accidente”, un’ “aggiunta” al suo Essere, ma è l’attributo stesso di Dio.
Certo non è facile comprendere quale “tipo di amore” è Dio. Lo dimostra la fatica che il cristianesimo nascente ha compiuto per scegliere anche solo la parola che indicasse l’amore cristiano. L’amore cristiano si definì come agape, cioè amore che lega, che unisce, amore fatto anche di sacrificio e servizio; prendendo rilievo sugli altri tipi di amore, come per esempio dall’eros, che era stato utilizzato dalla tradizione platonica per definire la spinta dell’uomo verso il bene e la bellezza.
Anche il linguaggio pedagogico ed educativo deve fare le sue scelte, e cercare di capire quale tipo di amore possa far scaturire quegli effetti autenticamente educativi e umanizzanti che abbiamo mostrato: creare relazione, dare sicurezza, accompagnare alla scoperta del senso, liberare, essere fonte di paternità e maternità responsabili, aprire all’universalità.
Anche noi stiamo cercando nuovi significati e nuove applicazioni dell’amore.
Quale amore supera la propria personale, limitata progettualità, e ancor di più, quale amore può superare la prova del fallimento della propria progettualità d’amore sull’altro? Un amore che sappia essere capace di rivolgersi a tutti, di prendere l’iniziativa per primo, di comprendere pienamente ognuno senza preferenze, di suscitare nell’altro una risposta. E perché questo sia possibile, occorre che l’attenzione e il donarsi siano accompagnati da un distacco che lascia all’altro la possibilità di rispondere, la possibilità di sviluppare le potenzialità che porta in sé[18].
Questa “bipolarità positiva” dell’amore, che sa donare, cioè “contenere- abbracciare-accogliere”, ma anche “lasciare-distinguere-distanziare” perché l’altro sia, permette:
Ø Che vi sia lo spazio per la relazione umanizzante, lo spazio imprescindibile dove si può svolgere la libertà propria e dell’altro.
Ø La capacità di accettare il crescere dell’altro, sia nei suoi fondamentali bisogni di protezione, sia negli altrettanto fondamentali bisogni e aspirazioni di autonomia, sviluppo, creatività.
Ø La libertà dall’attaccamento, da una eccessiva preoccupazione educativa, dalla pesantezza dei doveri.
Con questo breve studio, costruito a più mani tra noi, pensiamo di aver riportato il concetto di amore al posto che gli spetta: al vertice più alto, costitutivo dell’educazione stessa.
Pensiamo di aver contribuito inoltre a suscitare una miglior comprensione dell’Amore come processo dinamico dell’autentico amore educativo, con cui il padre, il maestro, l’educatore sa donare tutto se stesso, ma sa anche “lasciare” il figlio, l’allievo, l’educando, aiutandolo in tal modo a diventare a sua volta “padre”, perché possa a sua volta amare.
[1] U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria,Carocci, Roma 1999.
[2] E. Morin, Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano 1991.
[3] G.M. Zanghì, La notte culturale europea, Città Nuova, Roma 2007.
[4] F. Larocca, Nei frammenti l’intero, Franco Angeli, Milano 1999.
[5] E.M.Fondi, DioAmore nell’esperienza di Chiara Lubich, Roma 2000.
[6] H. Jonas (1979), Das Prinzip Verantwortung , trad. it., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2002, p.285; cfr. in particolare il cap.II. “Il dovere nei confronti dei discendenti”, pp.40-50).
[7] S. Agostino(354-430): soprattutto nel “De catechizandis rudibus” sottolinea le qualità dell’amore educativo del “maestro esteriore”, capace di donarsi con gioia (“hilaritas”) e di condurre allo svelamento del “Maestro interiore”.
[8] S. Anselmo (1033-1109) propone con queste parole la sua pedagogia dell’amore: “L’anima debole e ancora tenera ha bisogno del latte, e cioè della dolcezza dei pensiero, della benignità, della comprensione, della gioia, della bontà” (Eadmeo, Vita Anselmi).
[9] Vittorino da Feltre (1378-1447) con la “Ca’ giocosa” di Mantova dà vita ad una originale convivenza educativa dei ragazzi del popolo e dei figli dei Gonzaga, rompendo così con le secolari discriminazioni che riservavano l’istruzione ai nobili, ai chierici e ai ricchi: lo stile educativo vuole superare le consuetudini punitivo-repressive e fondarsi proprio sull’amore che il maestro vive nella continua convivenza con gli alunni.
[10] S. Giuseppe Colasanzio(1558-1648) reagisce all’autoritarismo della Controriforma realizzando le pionieristiche scuole popolari di Trastevere (Roma): qui vengono limitati al massimo i castighi corporali (ancora fortemente in auge in quell’epoca) e proprio l’amore viene assunto a principio metodologico per eccellenza.
[11] Amos Comenio (1592-1670), autore di “Didactica Magna” e di “Pansophia”, considerato l’iniziatore della pedagogia come scienza autonoma.
[12] Giovanni Battista de la Salle (1651-1719), fondatore dei “Fratelli delle Scuole Cristiane”.
[13] Enrico Pestalozzi (1746-1828), autore di “Leonardo e Gertrude”, “Il canto del cigno”, “Veglia di un solitario”, definito educatore impareggiabile e suscitatore di molteplici esperienze didattiche.
[14] A San Giovanni Bosco (1815-1888) fanno naturalmente riferimento le molte realizzazioni pedagogiche che, nei vari continenti, sono sostenute dai Salesiani..
[15] Paulo Freire (1921-1997) è universalmente conosciuto per la sua pedagogia fortemente legata all’impegno socio-culturale-politico. All’impostazione pedagogica freiriana può essere accostata, per molteplici affinità teorico-pratiche, quella di Don Lorenzo Milani (1923-1967)
[16] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, A. Mondadori, Milano 1971, pp. 107-108
[17] “Up” e “down”, nel linguaggio della “Pragmatica della comunicazione umana”, evidenziano le diverse posizioni di potere assunte dagli interlocutori all’interno di una relazione a-simmetrica.
[18] In un suo saggio , il teologo e filosofo Piero Coda utilizza la duplice categoria “dono-abbandono” per farci entrare nel cuore dell’essere dell’amore rivelatoci da Gesù, per il quale la dinamica del dono è inscindibile dalla capacità di “lasciar essere il donato” in tutta la sua realtà. “Abbandono” quindi non come indifferenza, trascuratezza, né tanto meno nel suo significato di “lasciare definitivamente, per sempre” (Devoto-Oli), ma come capacità di “distacco”, di sospensione del proprio “potere” sull’altro, perché egli possa essere pienamente se stesso. (cfr: Coda P. Dono e abbandono: con Heidegger sulle tracce dell’essere. Sta in: La Trinità e il pensare figure percorsi prospettive. Città Nuova, Roma 1997)