Incontro pedagogico, Padova 6 ottobre 2012
(Commissione EdU)
1.La notte culturale e pedagogica.
“Qual è il momento preciso del passaggio dalla notte al giorno?”. Un antico aforisma ebraico presenta questa domanda di un rabbino saggio, alla quale i presenti danno varie risposte, tutte superficiali e sbagliate. Evidentemente la risposta giusta, che alla fine il saggio sarà costretto a dare, è tutt’altro che facile e scontata.
Passare dalla notte al giorno: è una questione che riguarda il mondo dell’educazione, in un tempo che consegna agli educatori molti motivi notturni, elementi di crisi che siamo spesso tentati di evitare, a volte chiudendo gli occhi, come se questo artificio potesse realmente proteggerci dall’oscurità del contesto.
Bisogna innanzi tutto considerare gli insegnanti, la cui professione espone ad un rischio-stress spesso sottovalutato ma che è necessario leggere con attenzione: recenti studi[1] hanno evidenziato la rilevanza del fenomeno del burn-out connesso ad un “mestiere” tutt’altro che privilegiato (come spesso il senso comune tende a definirlo), la cui “sofferenza ordinaria” risente di crescenti difficoltà individuali nelle relazioni con gli studenti (così difficili da motivare), con le famiglie, a volte anche con gli stessi colleghi di lavoro, ma anche di difficoltà “strutturali” e istituzionali del mondo della scuola, spesso trascurato, sottostimato, orfano di un’adeguata formazione e di supporti capaci di dar vita ad un contesto complessivo che aiuti gli insegnanti a sentirsi meno soli nello svolgimento di un compito così importante e delicato.
Le difficoltà, gli ostacoli, i fallimenti ci sono e riguardano in realtà tutte le categorie implicate, ma spesso “si cerca con ogni mezzo di evitare tali esperienze” e di nasconderle anche con “forme di iperprotettività”, definendo “la vita come una strada in discesa, facile, comoda”.
I motivi notturni vanno invece affrontati, compresi e vissuti con profonda consapevolezza: soltanto chi vive la “mezzanotte profonda” – come direbbe Nietzsche – può passare il guado e prevenire al giorno.
Certo, parlare oggi di crisi, alludere alla necessità di uscire dal tunnel, riporta immediatamente alla difficile congiuntura economica, che con molta evidenza e forte allarmismo occupa le prime pagine dei giornali e i dibattiti a tutti i livelli, dal bar alla televisione al Parlamento.
Noi crediamo che, prima della crisi economica, ci sia la crisi dell’educazione, con tante questioni di fondo – che nascono da lontano – alle quali non si sono date risposte pertinenti.
“Come educare dopo Auschwitz?” – si domandava Adorno, e con lui tanti altri - evidenziando la drammatica impossibilità di trasmettere valori in una società che distrugge senza pietà la vita e nello stesso tempo riaffermando l’assoluta esigenza di educare affinché atrocità simili non si ripetano.
Come educare, potremmo aggiungere oggi, in un’epoca di crisi globale, caratterizzata da sempre crescenti squilibri, da estremismi religiosi che sfociano in situazioni di tensione o in guerre e terrorismo, da una crisi sociale, economica e culturale che tocca trasversalmente Paesi e Continenti diversi, da una disgregazione crescente dei quadri di riferimento – culturali, politici, religiosi – con conseguente incertezza valoriale e assenza di speranza per il futuro delle nuove generazioni? Come educare in contesti che sembrano aver perso ogni speranza e che, ad esempio, schiavi spesso di un paradigma positivistico, sostengono che varie difficoltà endogene al soggetto (intrapsichiche) o endogene all’ambiente (famiglia, scuola…) siano tali da precludere ogni sviluppo positivo, ogni redimibilità, al punto da avvalorare l’idea di una effettiva ineducabilità dell’individuo umano?
Le testimonianze che ci giungono non solo dalle cosiddette zone di frontiera ma anche dalla quotidiana sfida dell’educare in famiglia, in classe, nella società, ci parlano spesso di disagio: degli educandi, degli educatori (docenti, dirigenti, famiglie), della stessa istituzione educativa e scolastica. Ma sono spesso, come vedremo, testimonianze che aprono alla speranza.
Certamente le forme di disagio sono innumerevoli e non è possibile pensare di analizzarle qui in dettaglio.
2.La responsabilità a partire dal “micro”. Le “pietre scartate”.
Noi, proprio perché implicati nell’educazione, dobbiamo pensare che al macro-disagio socioculturale che trasversalmente permea le nostre società non possiamo che rispondere facendoci direttamente carico del disagio che si presenta a livello micro, nella vita concreta delle persone che ci stanno accanto e ci sono affidate, nella singolarità delle situazioni uniche che ci sfidano, nelle relazioni interpersonali, nei nostri piccoli mondi dell’impegno quotidiano, familiare, scolastico, nelle nostre piccole comunità di appartenenza.
È su questo massimo impegno nel micro che desideriamo soffermarci, pensando che proprio da questa dimensione ineludibile sia possibile iniziare il passaggio dalla notte al giorno.
Pensiamo alle persone in difficoltà, ai bambini e alle bambine, agli adolescenti che incontriamo nelle nostre classi, o che sbattono le porte di casa o, peggio, che se ne stanno rintanati nelle loro stanze o in piccoli gruppi, in ambiti sempre periferici, emarginati, al di fuori dei limiti che troppo facilmente siamo soliti assegnare alla cosiddetta “normalità”. Tante sono le biografie – anche scolastiche - segnate da cicatrici e fratture profonde e spesso trascurate, dimenticate, perfino rifiutate. Tante sono le “pietre scartate”.
Come non ricordare, a questo punto, Don Lorenzo Milani e quanto affermato su quei “pezzi” non riusciti, su quegli elementi più deboli, vulnerabili, a volte definiti “sbagliati”, che sono invece pietre angolari dell’edificio sociale? In “Lettera a una professoressa” si legge: “Va da sé che il tornitore si sforza di lavorare sul pezzo non riuscito affinché diventi come gli altri pezzi. Voi invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento. Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi ad ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare”.
È affidato a noi educatori, soprattutto, questo impegno “ad ogni costo”, questa necessità di “aguzzare l’ingegno” con tutti gli strumenti dell’educazione, per far emergere la pietra preziosa che c’è in ciascuno. Aguzzare l’ingegno, per comprendere quell’intimo disagio, quella sofferenza esistenziale, che si esprime anche come difficoltà ad essere soggetto, protagonista, nella complessa trama delle relazioni io-tu-noi-mondo. C’è chi, vittima di un’assenza d‘intenzionalità, di protagonismo, si considera un nulla, vittima di un mondo soverchiante che annulla ogni autostima. E c’è chi, al contrario, vive un protagonismo onnipotente: esiste soltanto l’io, un narcisismo che annulla l’altro, il mondo. In ogni caso, questi squilibri identitari e relazionali provocano frustrazioni e forme varie di aggressività, autoplastiche e alloplastiche, verso se stessi e verso gli altri e il mondo… mettendo in un circolo vizioso un disagio che genera disagio, provocando in ultima analisi la frantumazione dell’io, delle relazioni interpersonali, dell’appartenenza sociale. Sono temi che troviamo nelle nostre famiglie, nelle classi, nelle nostre città che, oltretutto, risentono delle difficoltà della convivenza multiculturale e delle trappole identitarie connesse alle patologie relazionali che si evidenziano anche in quest’ambito.
Molteplici sono perciò le “situazioni-limite” che ci sfidano e che, come afferma Paulo Freire, si configurano per gli educatori come “temi generatori” che vanno letti con intelligenza e affrontati – dice ancora Freire - con “impaziente pazienza”: “pazienza” – in quanto deve essere concreto l’accompagnamento educativo, in modo che chi vive qualsiasi disagio trovi in se stesso e nella relazione con l’educatore, la forza di reagire e di imboccare nuovi percorsi, con quella sincronia che sa rispettare i tempi e andare al passo con l’oggettiva situazione: “impaziente”, cioè senza mai attenuare il vivo desiderio del cambiamento, del raggiungimento delle mete.
“Impaziente-pazienza” che è richiesta all’educatore anche nel guardare a se stesso, ai propri limiti, agli insuccessi incontrati, alle difficoltà strutturali del sistema.
3.Abitare il limite. “Educatori dell’ estremo”.
L’imperativo di “abitare il limite” è stato indicato anche da Chiara Lubich che collega questa scelta all’esperienza di Gesù che sulla croce vive il suo abbandono, amore al massimo grado. Nella sua riflessione pedagogica a Washington, afferma che proprio Gesù abbandonato, l’uomo dei dolori, “ci indica il limite senza limiti della nostra azione pedagogica; fino a quale intensità debba muoversi”, facendoci scoprire, quindi, “il limite senza limiti della nostra responsabilità nell’aiuto e nell’educazione”.
L’educatore è chiamato perciò ad essere “specialista del limite”, perfino “specialista dell’estremo”, come affermano gli studiosi francesi che hanno recentemente pubblicato un interessante volume, intitolato appunto “Educatori dell’estremo. L’educabilità alla prova del reale”[2]. Sono molte, sottolineano questi autori, le oggettive situazioni “estreme” nell’educazione, che mettono alla prova “per la violenza che le caratterizza, per le difficoltà di bambini e ragazzi coinvolti, per la complessità dei contesti circostanti, per la molteplicità di esigenze a cui devono rispondere”.
“Non sempre gli educatori – si ricorda – devono confrontarsi con situazioni estreme, ma è pur vero che ogni educatore tenta di andare all’estremo di quanto intende fare”. Infatti, anche se “lo scacco fa intimamente parte dell’agire pedagogico”, gli educatori non si lasciano bloccare dallo scacco, dall’insuccesso, perché anche in queste situazioni “estreme” la loro azione pedagogica “può riuscire, può non rinunciare, può realizzare le speranze”.
L’educatore, perciò, non si tira indietro: è disponibile all’ascolto empatico, che significa “mi rendo conto del suo dolore… di un ‘nuovo’ dolore, suo, mai provato da me”, e proprio a partire da questa partecipazione profonda all’altro, assume la sua sofferenza, la sua vulnerabilità. Non si lascia vincere dalla tentazione dell’evitamento, cadendo nell’indifferenza o in altre forme di negligenza. Non desiste ma resiste, perché sa che questa forma, anche estrema, di resistenza permette all’altro di ri-esistere. Non si chiude in una comoda immunità (immunitas) ma si fa carico dell’altro, degli altri, della comunità (communitas). Communitas è il contrario di immunitas.
È questa la strada, come testimonia anche chi si impegna in realtà sociali ed educative di frontiera, per ricomporre ogni frammentarietà in unità, per riscattare ciò che sembrava perduto, per ridonare cittadinanza a chi si sente escluso, per far risorgere la comunità ove parrebbe imperare il buio dell'individualismo.
4.L’educatore-vulnerabile
Meglio ferirsi tra le spine e i reticolati della comunità che arroccarsi nell’asettica sterilità di un’irresponsabile indifferenza. Per educare l’altro-vulnerabile è perciò necessario un educatore-vulnerabile, un “esperto di ferite”, esperto nel difficile combattimento dell’educazione.
In realtà, la sofferenza di molti (si pensi soprattutto agli adolescenti, ai giovani) sta nell’assenza di educatori-vulnerabili, capaci di introiettare la fragilità e di condividere ferite.
È quanto denuncia Luigi Zoia, noto psicanalista, nel suo scritto “La morte del prossimo”, nel quale afferma che: “Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli sta vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo (…). L’uomo solo incontra la depressione; e, a circolo vizioso, l’uomo depresso è un uomo cui mancano la forza e la spinta per andare incontro al prossimo”[3] .
In un altro suo testo, “Il gesto di Ettore”[4], Zoia sostiene che tale orfanezza è strettamente legata all’assenza, che spesso è indifferenza, dell’adulto, dell’educatore, del padre. Scrive: “I figli sanno che il padre li ha voluti comodi, non sanno se li ha voluti uomini … Il padre è assente, non perché, come Ulisse, è andato a combattere una guerra, ma perché si rifiuta di combattere nei rapporti”.
L’educazione autentica si configura pertanto come esperienza di vulnerabilità condivisa: vivere con intensità l’importantissima “lotta educativa” – ricordando, ad esempio, la fecondità identitaria della biblica lotta di Giacobbe con l’Angelo, con Dio: una lotta che richiama in tutto e per tutto le caratteristiche della “lotta educativa”.
Sta qui la vera forza dell’educare, nel profondo incontro con la sofferenza, dove le ferite altrui diventano nostre, dove l’incontro autentico lascia – come per Giacobbe – una ferita identitaria che fa rinascere, un segno che realmente in-segna.
Chiara Lubich ci ha indicato, con la parola e la vita, il segreto di questo dolore-amore, insegnandoci l’importanza di stare nella Ferita per eccellenza, la ferita dell’abbandono sperimentata da Gesù sulla croce.
Stare in questa scomodissima posizione, essendo questa ferita-amore che comprende e sana ogni ferita, è veramente il segreto per quell’opera redentiva che è l’educare, la chiave della speranza, l’alba, il vero passaggio dalla notte al giorno.
Alla fine di questa riflessione, possiamo perciò riprendere e dare conclusione all’aforisma ebraico con cui abbiamo iniziato e che, in ultima analisi, ci propone di abbandonare i paradigmi della disperazione per abbracciare quello dell’alba, cioè quello della fraternità:
Un vecchio rabbino chiedeva qual è il momento preciso del passaggio dalla notte al giorno.
-Quando si può distinguere da lontano un cane da un agnello?
No, disse il rabbino.
-Quando si distingue un dattero da un fico?
No, no rispose.
-Ma allora, in che momento?
Quando guardi il volto di un qualsiasi essere umano, e tu vi
riconosci tuo fratello e tua sorella. Solo allora si alza il giorno.
Altrimenti, resta la notte nel tuo cuore.
(In SIDIC, 3/1992, p.12)
5.Dalla Lezione per la laurea honoris causa in Pedagogia[5]
Dalla notte al giorno: esperienza potente e quotidiana ad un tempo, che scaturisce dalla scoperta che l'altro non ti è indifferente, dalla profondità della dimensione di incontro di che sa superare le barriere per penetrare profondamente nel dolore dell'altro, per farlo proprio.
E in uno stralcio della sua Lectio per la Laurea honoris causa in Pedagogia, la Lubich ci offre un modello, quello del Cristo che sulla croce, assumendo su di sé tutte le domande degli uomini, grida il suo perché.
Lo ascoltiamo direttamente attraverso una videoregistrazione.
«E ancora: Gesù che grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34).
Gesù abbandonato è il nostro segreto, la nostra idea-chiave, anche per l'educazione. Ci indica il limite senza limiti della nostra azione pedagogica; fino a quale punto e con quale intensità essa debba muoversi.
Chi è Gesù abbandonato, per il quale abbiamo deciso di avere un "amore di preferenza"? Egli è figura dell'ignorante (la sua è l'ignoranza più tragica, la domanda più drammatica), del disagiato, del disadattato, dell'handicappato, del non-amato, del trascurato, dell'emarginato, di tutte quelle realtà-esperienze umane e sociali per le quali c'è - più che in ogni altra - un urgente e speciale bisogno di educazione. Gesù abbandonato è il paradigma di chi, carente di tutto, ha bisogno di qualcuno che gli dia tutto e per lui faccia tutto. Perciò è anche l'idea-limite, il parametro dell'educando, che postula la responsabilità dell'educatore. Egli ci indica perciò il limite senza limiti di tale bisogno e, nel contempo, il limite senza limiti della nostra responsabilità nell'aiuto e nell'educazione.
Gesù abbandonato però, che ha superato il suo infinito dolore aggiungendo: “Nelle tue mani, Padre, raccomando il mio spirito” (Lc 23,46), ci insegna pure a vedere la difficoltà, l'ostacolo, la prova, l'impegno, l'errore, il fallimento, il dolore, come qualcosa da affrontare, da amare, da superare. Generalmente noi uomini, in qualsiasi campo di attività, tentiamo con ogni mezzo di evitare tali esperienze. Anche in campo educativo - in tanti modi - con forme di iperprotettività, si tende a preservare i minori da qualsiasi difficoltà, abituandoli a vedere la vita come una strada in discesa, facile, comoda. In realtà, li si lascia in forte disagio di fronte alle inevitabili prove della vita e, in particolare, li si rende passivi e renitenti rispetto alle responsabilità che ogni essere umano deve assumersi di fronte a se stesso, al prossimo, alla società.
Per noi, invece, proprio per la scelta di Gesù abbandonato, ogni difficoltà va amata e affrontata. L'educazione al difficile, come impegno che coinvolge sia l'educando che l'educatore, è perciò un altro punto cardine della nostra pedagogia.»
[1] Si veda, ad esempio, la recente pubblicazione ministeriale in Francia del Rapport d’information fait au nom de la commission de la culture, de l’éducation et de la communication par la mission d’information sur le métier d’enseignant (B. GONTHIER-MAURIN, Senate, N. 601).
[2] R. CASANOVA, S. PESCE (eds.), Pedagogues de l’extreme. L’educabilité à la preuve du reel, Est Ed., 2011, pp. 11-23. Particolarmente importante la Prefazione di Houssaye.
[3] L. ZOIA, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009, pp. 13-14.
[4] L. ZOJA, Il gesto di Ettore – Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, 2001.
[5] C. LUBICH, Lezione per la laurea honoris causa in Pedagogia, in: Lubich – Educazione come vita, a cura di A.V. ZANI, La Scuola, Brescia 2010, pp. 154-155